Hossam Mikawy, il giudice che sfidò il regime di Mubarak

In uno dei primi giorni della Rivoluzione egiziana, le avventurose troupes di tv straniere che percorrevano piazza Tahrir alla ricerca di qualcuno che parlasse inglese e comunicasse autorevolezza si imbatterono in quel giovane giudice presidente della Corte d’assise di Cairo Sud. Alla Bbc espresse tutto il suo oltraggio per la violenza delle forze dell’ordine contro i manifestanti, e puntò il dito contro il governo. Quella sera amici e parenti pensarono che la carriera e la vita libera di Hossam Mikawy (a lato, prima foto in alto) erano finite. Il giorno dopo già si meravigliavano che non fosse stato ancora arrestato. Sei mesi dopo, il magistrato egiziano è ancora al suo posto, mentre il regime ha dovuto fare le valigie. Hossam divide il suo tempo fra l’impegnativo lavoro di giudice e un ruolo nel gruppo dirigente del Cairo Meeting, realtà di incontro fra musulmani e cristiani che ha fatto il suo debutto nell’ottobre dello scorso anno con una tre giorni di conferenze e concerti nei luoghi più suggestivi della capitale egiziana. Tre mesi dopo quell’happening, che fu commentato positivamente da tutta la stampa e dalle tv egiziane, la storia del paese avrebbe conosciuto una stupefacente accelerazione: «Non avevo mai partecipato a una protesta di piazza. Ma quella di gennaio era una cosa diversa: tante persone, come me, sono scese in strada per la prima volta nella loro vita e hanno rischiato tutto».

Hossam si autodefinisce «un musulmano liberal, e non mi importa che nel mio paese molti considerino l’aggettivo liberal un insulto»; è convinto che le norme giuridiche prefigurate nel Corano e nella Sunna possano essere interpretate in termini progressisti, tanto che sull’argomento ha realizzato una presentazione in powerpoint. Ma la sua passione politica principale riguarda l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: «Il punto più importante che la Rivoluzione egiziana deve realizzare è l’uguaglianza fra cristiani e musulmani: entrambi devono poter partecipare alla vita pubblica a pieno titolo. Siamo diversi per la fede, ma abbiamo in comune il senso religioso, e quindi la visione dell’uomo come essere alla ricerca del significato».

In un paese come l’Egitto, dove vige ancora la pena di morte per alcuni gravi reati, essere giudice comporta enormi responsabilità: «Mi è successo di essere ringraziato, alla vigilia dell’esecuzione, da rei confessi che ho condannato all’impiccagione per omicidio: si sono sentiti compresi nella loro umanità, mi dicevano che ero la persona che era stata loro più vicina». Sulle attuali difficoltà della transizione egiziana alla democrazia ha idee chiare: «Ci sono un sacco di provocatori in giro e di manifestanti in buona fede che si lasciano manipolare. Gli scontri in piazza Tahrir fanno il gioco degli esponenti del vecchio regime, che li hanno fomentati come rappresaglia per la loro esclusione dalle amministrazioni locali, uno degli ultimi bastioni che occupavano». Il rinvio delle elezioni lo trova favorevole: «Le forze democratiche hanno bisogno di tempo per organizzarsi, un’elezione adesso sarebbe prematura. Concederebbe un vantaggio indebito agli islamisti, che sono i più organizzati. I salafiti? Non mi fanno paura: applichiamo loro il metodo democratico, diamogli una tribuna perché possano parlare liberamente; la gente capirà da sé che razza di politica arretrata attuerebbero se fosse loro affidato il governo della nazione».

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