Ho sposato la lingua!

Di Respinti Marco
05 Luglio 2001
Le lingue non sono un “flatus vocis”. Sono la storia raccontata (da un “io” a un “tu”) di esperienze e di vita. E quindi esprimono la capacità principale dell’essere umano, che è quella di rapporto (soprattutto perché strettamente interconnesse con la sua ragione). Conferme teoretiche di un diario di bordo (vedi le pagine precedenti) intervista a Edo Rigotti

«Felix culpa Babel!»: J.R.R. Tolkien esclamava così il proprio entusiasmo di filologo. Da qualche parte ho letto un’affermazione molto diversa: «La parola è difficile perché noi siamo stati divisi dalle parole». Era la cantante anarchica Patti Smith. Il filosofo neoplatonico Filone di Alessandria dedicò, fra ellenismo e giudaismo, un’opera al logos divisore, figura del divino così come lo intendeva lui. Ma, nel Prologo di san Giovanni, il Verbo si è fatto carne. Il gesuita Guido Sommavilla (traduttore italiano di Hans Urs von Balthasar e di Christoph Schönborn, studioso di letteratura e di mistica, di Franz Kafka e di Romano Guardini, nonché estimatore di C.S. Lewis e di Tolkien sui quali ha scritto pagine insuperate) in Dio: una sfida logica (Rizzoli, Milano 1995) afferma che, a partire dall’epopea di Gilgamesh (il mito mesopotamico del Diluvio universale), la logica delle lingue è quella di essere completamente traducibili l’una nell’altra traducendo l’umano.

A Eddo Rigotti, decano della facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università della Svizzera Italiana di Lugano — linguista, glottologo e poliglotta —, Tempi ha proposto alcune suggestioni.

Lingua, linguaggio e comunicazione. Quali relazioni?…

Tratterò solo delle lingue storico-naturali, quelle che hanno origine in un popolo, in una comunità, e che quindi nascono, crescono, si sviluppano, possono andare in crisi e addirittura morire. Un tempo erano paragonate agli individui, quasi possedessero un ritmo biologico pure loro: per esempio l’italiano, l’inglese e il tedesco; o il latino e il greco, e perché no anche il sanscrito. Lingue, insomma, che hanno un’origine e un’evoluzione perché al servizio di una convivenza.

La lingua è stata definita un “sistema di segni”, che però serve anche e soprattutto alla comunicazione fra gli uomini per un comunicare che non è fine a se stesso. La comunicazione si manifesta infatti sempre meglio come realtà integrata in un processo d’interazione che costruisce — assieme — la convivenza. Un’interazione umana… La comunicazione è cioè un’interazione che fa parte di un’interazione più grande, questa seconda un’interazione non comunicativa… D’altra parte è difficile stabilire dove finisca la comunicazione e dove inizi l’azione…

La lingua è quindi essenzialmente scambio?

C’è da chiedersi immediatamente fino a che punto un dono non è linguaggio e una parola un dono… Le lingue possiedono una dimensione strettamente comunicativa, e siccome l’uomo è il vivente che comunica, l’avere una lingua, anzi l’avere a disposizione più lingue cioè quasi un repertorio di possibilità espressive (il monolingua assoluto non è mai esistito…), è quanto dà luogo al linguaggio umano. Peraltro, l’intreccio fra umano e lingua rivela un legame essenziale nella misura in cui il linguaggio è logos. Il quale a sua volta rivela un nesso particolare con la ragione.

Che è una prerogativa tipica (e discriminante) dell’essere umano…

Già… Sarebbe importante, nella mappa che lei d’esordio ha disegnato per provocarmi — la mappa concettuale costitutiva del tessuto umano fondamentale —, scorgere il nesso esistente fra linguaggio e ragione. In fondo sono due dimensioni che si uniscono appunto nel concetto greco di logos. Entrambe rapportano l’uomo con l’altro (con la realtà circostante e con l’altro uomo): eccoci dunque di fronte alla funzione di costituzione dell’umano che il linguaggio svolge. E questo sia nella dimensione individuale della persona, sia nel suo essere comunitario. L’uomo è infatti un essere intrinsecamente comunitario, davvero costituivamente comunitario… Il linguaggio, strumento per rapportarsi all’altro, si compie nella comunicazione…

Spesso ricordo l’etimologia di questo termine. Potrebbe sembrare banale, ma communis è fatto di con, che dice “partecipazione”, e di quella strana parola, munus, che significa al tempo stesso “dono” e “compito”. È evidentissimo nel sostantivo matri-monium: il dono è il compito della madre, e il figlio è dono e compito specifico della madre.

Quel che si scambia nella comunicazione è un bene (il dono), che è però pure un compito. Parlando, noi umani negoziamo dei beni che passano da una persona all’altra; possono essere informazioni, notizie nel senso più generico del termine, annunci… Informazioni, cioè, che riempiono la nostra attesa. Possono essere ancora avvertimernti, ammonizioni, magari comandi, pure promesse… Ma tutto questo è un qualcosa che crea compiti nuovi, impegni nuovi fra gli uomini. Quel che viene scambiato è insieme dono e compito. Qui bisognerebbe davvero addentrarsi in ciò che è il “senso” del parlare…

Proviamo?

“Senso” come “ciò che si scambia”. Il munus (quel munus) è una realtà che viene comunicata, ossia condivisa. Ciò che viene scambiato è il senso se non addirittura un cambiamento della soggettività, un cambiamento di rapporto con la realtà. È questo il dono che ci si scambia nella comunicazione. Se qualcosa viene comunicato, se fra due esseri umani qualcosa passa, significa che quel qualcosa cambia. E cambia la soggettività umana. In questo intreccio, la lingua è lo strumento fondamentale per costruire messaggi, cioè scambi di sensi. Per forza la lingua cambia…

Non immaginiamo la lingua come un codice deterministico; continuamente al servizio della convivenza umana, essa aderisce all’esperienza e dice relazione alla categoria della possibilità. I segni linguistici sono “strumenti” espressivi adattabili e flessibili. L’incredibile ricchezza espressiva di una lingua nasce dal fatto di essere continuamente coinvolta nella scrittura, cioè nello scambio di esperienze e di senso. La creatività è la capacità della lingua di rispondere a tutte le infinite irripetibili esperienze umane. Non solo un gioco di segni, ma un’interazione continua fra dimensione del segno (semiotica) ed esperienza, che è pragmatica e interattiva. Noi esseri umani non parliamo solo con le parole, ma pure con le cose della nostra esperienza. Molti contenuti non passano semplicemente perché affidati alle parole, ma per condivisione di esperienza.

E lo studio di una lingua?

Studiare una lingua significa appassionarsi. Ma perché farlo? La lingua non è una nomenclatura. È un insieme ricco, sterminatamente ricco, di strumenti e di procedimenti, poi di regole, peraltro estremamante flessibili, con le quali l’uomo riesce a formulare (quindi a realizzare) ciò che cerca.

La lingua è il frutto di un’esperienza comunitaria, di una convivenza e di un rapporto con la realtà. E le parole sono le ipotesi che una comunità si forgia sui significati delle cose, sulla loro essenza, sul significato che le cose hanno per la vita umana. Se affrontiamo lo studio di una o più lingue, quanto ci avvince è che ognuna di esse si pone come un sistema estremamente ricco d’ipotesi di articolazione della realtà. Questo ne rende appassionante lo studio. Perché significa “incontrare”. Farlo solo sui libri è dura…

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