Ho capovolto lo spirito del tempo

Di Cwalinski Vladek
04 Agosto 2005
GEORG BASELITZ SI RACCONTA: GLI ANNI DEL MURO, FIGURE FRAMMENTATE E CAPOVOLTE, I MODELLI E IL PRESENTE A VILLA LUCE. SENZA MAI «IMMISCHIARSI»

è significativo che Georg Baselitz (Deutschbaselitz, 1938), figura chiave dell’arte del Dopoguerra e protagonista assoluto della generazione che ha “rifondato” la pittura in Germania negli anni Sessanta, si sia stabilito in un angolo della Liguria e decida di organizzare una mostra in una villa appena restaurata. Lui è così, del politically correct se ne fa un baffo. Da diciotto anni ha stabilito il proprio atelier a villa Luce, nel parco naturale di Capo Berta, in mezzo agli ulivi e ai limoni, proprio di fronte al mare, dove dipinge in solitudine. Nonostante abiti in un’abbazia fortezza gotica del 1216 nei pressi di Hannover, ultimamente preferisce lavorare vicino ad Imperia. Dato che a villa Luce nessuno può accedere, arrivo a villa Faravelli dove è allestita la sua esposizione, con alcuni lavori realizzati negli ultimi dieci anni. Da un’auto nera scende un cavaliere teutonico, un omone calvo che mi fissa con i piccoli occhi verdi, “appuntiti” e curiosi. L’impressione è quella di trovarsi innanzi a un personaggio tipo Gabriele D’Annunzio. Di sicuro non assomiglia a uno dei tanti frequentatori che girano per il Miart e l’Artfair di Bologna quasi si trovassero nel paese dei balocchi.
Che significato aveva per lei, nei primi anni Sessanta, in un periodo in cui veniva costruito il Muro a Berlino e la libertà dell’uomo contava sempre meno, il reinserimento della figura umana all’interno dei dipinti?
Nessuno. Sono nato come pittore astratto e non mi sono mai interessato di temi sociali o, comunque, in quel momento non mi interessavano.
Nel 1962 nel secondo manifesto del “Pandemonium” lei e Eugene Schoenebeck affermavate: «Noi trasportiamo la nostra dura prova del colore nella vita». Che coincidenza c’è tra vita e pittura?
Allora io e Schoenebeck ci siamo mossi in un modo totalmente incontrollato. Non c’erano entrate, la vita non era una bella vita, e Berlino non era sicuramente un posto piacevole. In quel periodo, 1957, siamo arrivati in tanti all’Ovest dalla Ddr. Era come se si scappasse dal controllo, che era dello Stato, che andava dai genitori all’educazione. Ci siamo trovati completamente indecisi. Non sapevamo che cosa fare.
Ha guardato alla tradizione pittorica tedesca addirittura tardo medievale come a Grünewald, oppure a quella del popolo come alle usanze del suo paese natio. Quanto è importante per lei?
Negli anni iniziali non avevo interesse per questo. Ho cambiato il mio nome in Baselitz, il nome del mio paese, perché non volevo coinvolgere la mia famiglia in che facevo. Mi rivolgevo piuttosto all’ambito “coloniale” , Stati Uniti e Francia.
Hödicke, anni fa, diceva che lei vuole sempre raggiungere una certa qualità della pittura al di là del soggetto rappresentato.
Ma ho voluto sempre fare cose diverse dai miei maestri. Ho ricercato ispirazione nei surrealisti e nei pittori malati di mente, come il francese Antonin Artaud e il russo Michail Vrubel. Quando ho visto le reazioni delle persone che hanno gridato allo scandalo ho capito che avevo fatto centro.
Dal 1963-64, ha iniziato a fratturare le immagini dei suoi dipinti. Perché?
Se pensiamo al teatro di Samuel Beckett o Eugene Ionesco e guardiamo le mie figure umane, si vede che i miei sono modelli letterari. Lì c’è Ionesco e c’è Beckett. Era la situazione della fine della guerra in Germania, le persone erano patetiche, le figure erano rotte, fratturate dentro e fuori.
Non c’era il sociale, ma la persona.
Deve pensare alla Germania che usciva distrutta dalla guerra. Non si poteva più dipingere come Matisse, bisognava ricominciare da capo. Era quello che volevo fare: trovare una via in quegli anni.
La prima cosa che si chiede la gente davanti ai suoi dipinti è: perché li fa a testa in giù?
In effetti mi pongo il problema dello spettatore che osserva i miei dipinti. Nel 1969 dovevo decidere qualcosa e ho trovato questo: l’arte ha sempre voluto dare un’espressione politica di sé. Io non lo volevo, ho capovolto i motivi e questa è stata la mia chiave di volta.
Che valore ha la pittura per il recupero della memoria personale?
Sono un pittore e m’interessa moltissimo la storia dell’arte. Sono quarant’anni che studio il Parmigianino e il manierismo, ma nello stesso tempo m’interessa anche il Medio Evo, o Pollock. Il lavoro di un artista è però diverso da quello di uno storico. Un artista, per essere tale, deve fare un percorso dentro di sé che lo porta necessariamente a distruggere delle cose. Soltanto dopo si può parlare di un percorso che si appoggia a determinati punti storici.
Lei ha una casa qui da anni. La nostra tradizione artistica le interessa?
I tedeschi sono sempre stati, per quanto riguarda l’arte, dipendenti dagli italiani fino al momento della Nuova Oggettività. Sono state costituite scuole in Germania sul modello raffaeliano, ad esempio. Ma non sono venuto in Italia per confrontarmi con gli artisti del passato. Quelli viventi che ho conosciuto come Mario Merz, Francesco Clemente ed Emilio Vedova li ho incontrati in America. Teniamo presente che in Germania s’investe moltissimo sull’arte contemporanea. Abbiamo centinaia di musei, università, sovvenzioni e premi per giovani artisti che vengono sottoposti a una selezione. Questa, ahimé, è la differenza rispetto all’Italia.
«Non sono un esperimento sono un bambino», si leggeva in una foto sul “Corriere della sera” che riprendeva un cartello di protesta a Madrid contro la legge Zapatero. Oggi si vuole decidere quale sarà una sorte prima della nascita. Cosa può fare un pittore per dipingere tutto ciò?
Ritengo che un artista non debba farsi influenzare da questi avvenimenti. Sono cresciuto in un paese che per quarant’anni ha portato avanti la causa antifascista. Ma io non m’immischio. Non mi piace la gente che dimostra, che protesta. Per me anche la stampa mente e mentono anche le foto. Le prime critiche che ho ricevuto annientavano la mia opera. Ora è diverso. Perché? Non voglio vendermi come gli artisti che protestano.
Ma l’arte può essere un modo più profondo di vedere ciò che accade nel mondo?
Quello che fa un artista è esclusivamente il suo lavoro. Non andiamo al di là di questo. La maggioranza dei quadri sacri, ad esempio, sono dipinti male, hanno un buon soggetto ma una cattiva qualità. Non c’è nessun’opera al mondo che esprima un’opinione.
Il contenuto è quindi dannoso per un’opera d’arte?
Grünewald quando ha dipinto la Crocifissione dell’altare d’Isenheim indubbiamente ricercava il contenuto. Però è riuscito a farlo meglio di altri, è riuscito a scavare di più dentro sé stesso.
Il desiderio che la propria arte incida sulla storia è ancora un valore oggi?
Naturalmente, per me è così. Nel 1958, a Berlino, quando frequentavo ancora l’Accademia ho visto i quadri di Pollock e sono rimasto folgorato. Dopo iniziai a dipingere figure umane senza nessun modello. Certo, ci sono dei quadri viventi, che nel tempo rimangono vivi. Ma combatto ciò che in Germania si chiama lo “spirito del tempo”.

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