
Contro la pretesa dello Stato di «regolare l’umanità “all’ingrosso”»

Una delle operazioni intellettualmente più complesse è quella volta a identificare il dantesco «discender per li rami», i rapporti di filiazione che si instaurano tra temperie culturali e singoli autori distanti tra loro anche di secoli come pure, viceversa, gli incontri mancati, gli appuntamenti disertati.
Questa fatica è stata a nostro avviso coronata da successo nell’introduzione di Alberto Mingardi a L’uomo contro lo Stato (The Man Versus the State) di Herbert Spencer, recentemente riapparso in libreria per merito di Liberilibri. «Magnifico dinosauro», pezzo da museo, polverosa anticaglia per il lettore odierno, Spencer, ci ricorda Mingardi, avrebbe anticipato tematiche poi riprese da Friedrich August von Hayek, che per sua stessa ammissione non aveva grande dimestichezza con il pensiero del filosofo di Derby.
Se ovviamente neanche Spencer si muoveva in un vuoto pneumatico e le sue teorie dell’evoluzione delle società umane dallo stadio militare a quello industriale e dell’ordine spontaneo avevano più di un’assonanza la prima con la filosofia di Saint-Simon e la seconda con l’illuminismo scozzese, cionondimeno su alcune intuizioni Spencer avrebbe costruito edifici teorici la cui profondità sarebbe stata colpevolmente misconosciuta dagli studiosi successivi.
La hayekiana “presunzione fatale”, osserva infatti Mingardi, che rifiuta di riconoscere a un’élite di governo, anche la più avvertita, la capacità di raccogliere tutte le informazioni necessarie per porre in atto strategie che possano incrementare il livello di benessere dei consociati, stante la natura dispersa e molecolare della conoscenza, aveva già ricevuto una compiuta formulazione in Social Statistic, prima, e in The Man Versus the State, poi, in cui si legge come «tanto al cittadino quanto al legislatore, la vita quotidiana offre ampie prove che la condotta umana sfugge alle previsioni più minuziose […]. Nonostante gli riesca tanto difficile trattare con l’umanità “al dettaglio”, il legislatore è convinto di possedere l’abilità necessaria per regolare l’umanità “all’ingrosso”. Mentre non conosce neppure un millesimo dei cittadini, e non ne ha visti neppure un centesimo, ed ha soltanto idee molto vaghe sulle abitudini e il modo di pensare delle classi alle quali il maggior numero di essi appartiene, il legislatore è sicuro che agiranno nel modo che ha previsto, e perseguiranno i fini che egli auspica».
Anche l’idea, ricorda sempre Mingardi, che le diverse sfere sociali in cui l’uomo esplica la sua attività rispondano a princìpi distinti, sviluppata da Hayek, non era certo assente nella speculazione spenceriana.
Se l’ambito familiare in tutte le specie, compresa quella umana, è caratterizzato infatti dal principio della gratuità, argomentava il filosofo britannico, e questa «dev’essere tanto maggiore quanto meno il piccolo può essere d’aiuto a sé e agli altri», in quello più ampio degli individui adulti entra «in gioco un principio opposto a quello sopra descritto». Messo difatti «in concorrenza con i membri della propria specie ed essendo in lotta con quelli di altre specie, l’individuo adulto, a seconda che possieda o meno determinate facoltà, può deperire o essere ucciso, oppure prosperare e riprodursi. In tutta evidenza, un regime diverso da questo, ammesso che sia possibile, con l’andar del tempo sarebbe fatale».
Tale distinzione di princìpi, regolanti i due diversi domini sociali, vige anche nella società umana: «Sicuramente nessuno può negare che, se il principio della vita familiare fosse adottato e applicato coerentemente alla vita sociale, se cioè si distribuissero grandi ricompense per piccoli meriti, l’esito sarebbe fatale per la società. […] La società, nel suo insieme, non farà che produrre disastri, immediati o remoti, quando interferirà nell’azione di questi due opposti e distinti princìpi, che hanno permesso ad ogni specie di adattarsi alle condizioni in cui vive e di prosperare». Contrariamente all’«etica della famiglia», l’«etica dello Stato» non deve affidarsi al principio della generosità ma a quello della «giustizia», vale a dire «il rigoroso mantenimento di quelle normali relazioni tra cittadini che permettono ad ognuno di ottenere per il suo lavoro materiale o intellettuale, più o meno qualificato, ciò che si dimostra essere il suo valore in ragione della domanda».
Considerato, ancora in vita e in tutta Europa, un gigante del pensiero prima di venire marchiato con l’accusa bruciante di darwinista sociale, Spencer avrebbe esercitato una straordinaria influenza anche sugli ambienti culturali nostrani tra Otto e Novecento (certificata, ad esempio, dal socialista Enrico Ferri che avrebbe intitolato significativamente un suo lavoro “Socialismo e scienza positiva. Darwin, Spencer, Marx”).
La categoria dell’io multiplo di Maffeo Pantaleoni, il «principe degli economisti italiani» secondo la celebre definizione di Piero Sraffa, è certamente debitrice del pensiero di Spencer. «Ogni individuo appartiene a innumerevoli gruppi», scrive l’economista maceratese; da qui la necessità, per massimizzare l’efficienza del consesso sociale, di tenere distinti i diversi aspetti dell’io, vale a dire l’affettivo, il politico e l’economico, nell’azione sociale dell’individuo.
Tale distinzione si realizza per Pantaleoni nella società competitiva, dove i rapporti affettivi, politici (quindi coattivi) e contruattalistico-mercantili si sviluppano autonomamente, senza sconfinamenti e sopraffazioni reciproche. Storicamente, la massima realizzazione in Italia della società competitiva viene rinvenuta da Pantaleoni nel primo ventennio dello Stato unitario, quando le funzioni coercitive dei poteri pubblici erano limitate sostanzialmente a far rispettare norme di comportamento indirizzate a tutti i consociati e permettevano quindi il pieno dispiegamento della concorrenza mercantile nell’ambito della dimensione economica nonché l’intangibilità della sfera privata individuale.
Tale impianto istituzionale, per Pantaleoni, impedendo che la sfera concorrenziale fosse vanificata da indebite intromissioni del potere politico, aveva assicurato la vitalità civile dell’Italia postunitaria.
Ma anche quello che Mingardi sottolinea felicemente come «il vero, grande argomento [di Spencer] per una rigorosa limitazione dei poteri pubblici: quello cognitivo», trova i suoi echi nel discorso pantaleoniano che riconosce al governo il compito di «fornire soltanto le condizioni generali, necessarie a tutti, uguali per tutti, della vita della nazione e non fare da tutore di coloro che ne sanno più di lui, ognuno nel suo particolare».
Più in generale, la teoria spenceriana dell’ordine sociale spontaneo, cooperativo ed inintenzionale come pure la convinzione dei rischi dell’approccio costruttivista sarebbero state accolte e riproposte con accenti ancor più esasperati da Pantaleoni, che a fronte delle visioni sociali palingenetiche che andavano prendendo forma all’indomani della conclusione del primo conflitto mondiale avrebbe sentenziato lapidario che «la selezione, o storia sociale, ha formato e sviluppato tessuti sociali e legami sociali che hanno una resistenza ed elasticità conforme alle variazioni massime delle tensioni, trazioni, torsioni e spinte alle quali il sistema è andato soggetto. Questi tessuti si lacerano, e questi legami saltano, sotto l’azione di forze superiori a quelle che la storia aveva sviluppate e per le quali perciò il sistema non è stato fabbricato. Si hanno allora ecchimosi, travasi, spappolamenti di organi e turbative in tutto il sistema».
Luca Tedesco, autore di questo articolo, è professore associato in Storia contemporanea all’Università degli studi Roma Tre
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