«Così la guerra può colpire la nostra economia. Le sanzioni alla Russia sono il meno»

Di Matteo Rigamonti
13 Marzo 2022
Marcello Signorelli spiega le conseguenze del conflitto in Ucraina su un sistema già in declino. «Solo la Cina ha potere di persuasione su Putin»
Costruzione di barricate a Kiev con sacchi di sabbia
Barricate a Kiev (foto Ansa)

Non è a Mosca che bisogna guardare per comprendere il potenziale impatto dell’invasione russa in Ucraina sullo stato di salute dell’economia italiana. Al netto dell’attenzione che merita il costo del conflitto in termini di vite umane e gestione dei flussi migratori, sono le mosse di Bruxelles, Washington e Pechino che rischiano più di tutto di influenzare le sorti del nostro tessuto produttivo. A spiegare perché a Tempi è Marcello Signorelli, ordinario di Politica economica all’Università degli Studi di Perugia e membro del consiglio di presidenza della Società italiana di economia, tra i promotori di Lettera 150, nonché autore di Politica economica (Giappichelli), manuale fresco di terza ristampa con l’eloquente sottotitolo Le politiche dopo la grande recessione e lo shock pandemico, due fattori che finora hanno influenzato l’economia interna più dell’escalation militare intrapresa dal Cremlino, che pure aggrava una situazione già critica per i nostri conti pubblici e privati.

Professor Signorelli, in questo scenario dove risiede la principale minaccia per l’economia italiana?

Posto che si potrebbe comunque discutere della reale efficacia delle sanzioni, per comprendere cosa rischia il nostro paese per via della guerra in Ucraina, ritengo che non si debba nemmeno commettere l’errore di focalizzare troppo l’attenzione solo sulle conseguenze delle sanzioni e della perdita di esportazioni verso la Russia. Ci sono ben altri aspetti che rischiano di peggiorare molto di più lo stato di salute dell’economia italiana, aspetti che vengono talvolta poco considerati o sottostimati.

A cosa si riferisce in particolare?

Innanzitutto all’aumento del costo dell’energia e delle materie prime, anche al di là di quelle che continuano ad arrivare dalla Russia e posto che un blocco totale delle importazioni di gas nei suoi confronti non sarebbe comunque praticabile. Anche se stiamo già trattando con Algeria e Azerbaigian, infatti, quello dell’aumento del prezzo dell’energia e del gas rimane un trend in crescita, già prima che scoppiasse il conflitto. Un aumento che si traduce in maggiori costi per le imprese, specie quelle più energivore, ma anche in bollette più care per le famiglie; è un fatto che contribuisce ad erodere il reddito disponibile e dunque colpisce direttamente il potere di acquisto di beni e servizi prodotti in Italia. L’incertezza, se possibile maggiore che durante la pandemia, poi, fa sì che aumenti la propensione al risparmio, il che è razionale a livello di scelta microeconomica, ma a livello macroeconomico, invece, contribuisce a peggiorare il quadro.

E il conflitto come aggrava il quadro che ha tratteggiato?

Contribuendo a sua volta al rallentamento dell’economia globale, che nella fase pre-invasione stava almeno vivendo un positivo trend post-pandemico. Ma questo raffreddamento del commercio e delle importazioni a livello mondiale influenza negativamente le nostre esportazioni verso tanti paesi nei quali non c’è alcun tipo di restrizione. E ciò avrà un impatto ben maggiore di quello, troppo enfatizzato, dell’impossibilità di esportare in Russia. E poi, modificare la composizione della spesa pubblica, per esempio aumentando le spese militari – cosa impensabile prima di questo intervento della Russia –, potrebbe far sì che scarseggino ulteriormente risorse da destinare a ben altro genere di interventi, per esempio a favore della sanità pubblica o del sociale. E non dimentichiamo quale era lo stato reale di salute dell’economia italiana ancora prima che scoppiasse la guerra in Ucraina.

Non eravamo tornati a crescere?

Sì, è vero, ma non eravamo ancora usciti del tutto dall’impatto della recessione pandemica, da quei quasi 9 punti percentuali di Pil in meno del 2020. Il 2021 ha avuto un rimbalzo migliore del previsto (+6,5 per cento), ma nei primi mesi del 2022 non avevamo recuperato del tutto e ora ci colpisce un ulteriore e nuovo shock. A volerla raccontare tutta, prima della pandemia eravamo comunque circa cinque punti di Pil sotto il livello del 2008, l’anno precedente alla grande recessione de 2009. E se vogliamo allargare ancora di più lo sguardo, l’economia italiana vive un declino lungo ormai trent’anni, che è peggiore di quello europeo, un contesto a sua volta in declino rispetto alle dinamiche globali. Se invece andiamo a vedere il Pil della Cina, a parità di potere d’acquisto, il suo peso economico a livello mondiale è passato dal 2 per cento circa di quarant’anni fa a quasi il 20 per cento di oggi (18,3 per cento), che significa che in quattro decenni è divenuta la prima economia globale, superando Stati Uniti (15,8 per cento) e Unione Europea (15 per cento). Mentre la Russia pesa, sempre a parità di potere d’acquisto, per il 3 per cento nell’economia mondiale.

Cosa dovremmo dedurne?

Che occorre fare più diplomazia verso la Cina, che in questo momento è forse l’unica potenza realmente in grado di persuadere la Russia di Putin a trattare una pacificazione. La Cina infatti è per dimensioni in grado di mantenere in vita l’economia russa, anche al netto delle sanzioni dell’Occidente. Ma Mosca, dal canto suo, rappresenta per Pechino un alleato debole e che si sta ancor di più indebolendo, venendo così inglobato nell’ambito d’influenza del potere cinese. Il che potrebbe rappresentare un vantaggio, ma anche uno svantaggio se si considera l’influsso che il conflitto ucraino può esercitare nei confronti del percorso di crescita che la Cina sta attuando attraverso esportazioni, progetti come la Nuova Via della seta, acquisizioni di tante attività produttive in giro per il mondo (basti pensare ai porti come il Pireo e a tante situazioni analoghe in Africa, Sud America e nei paesi europei). Una crescita che ha fatto da traino all’economia, senza dimenticare il fatto che in Cina il tasso di risparmio privato è da decenni stabilmente intorno al 50 per cento del reddito disponibile (anche per via dell’assenza di un sistema pensionistico ben strutturato e di un vero e proprio sistema sanitario pubblico). Ma dove finisce tutta questa liquidità? In investimenti interni e, in quantità molto rilevante, in acquisizioni finanziarie e reali estere. Bisogna vedere fino a che punto l’escalation del conflitto ucraino potrebbe mettere a rischio questa pacifica conquista economica mondiale da parte della Cina.

L’Europa come si pone in questa partita?

Due sono le questioni che si pongono a livello di eurozona: cosa succederà per via del peggioramento dei conti pubblici, che ormai è inevitabile, anche perché gli Stati europei, Italia compresa, andranno per forza di cose incontro a maggiore spesa pubblica a parziale sostegno sia delle famiglie per il “caro bollette” che di quei settori produttivi colpiti dall’attuale situazione di crisi e ci saranno anche minori entrate per effetto della minore crescita economica e consumi. A ciò si aggiunga che, dovendo produrre ulteriore deficit per finanziare questo genere di politiche, si andrà ad accrescere ulteriormente il debito; ma se nel frattempo il piano della Banca centrale europea di acquisto del debito per far fronte all’emergenza pandemica (Pepp) va verso scadenza in questo mese di marzo e il quantitative easing II (App) va a ridursi a un ritmo più accelerato (come deciso il 10 marzo scorso dalla Bce), la questione di fondo rimane come preservare in un sentiero di sostenibilità il debito pubblico. Ed è la Bce il cardine di queste decisioni.

Vede ulteriori rischi per l’economia italiana?

Beh, se questa situazione dovesse durare a lungo, si correrebbe il rischio di riportare l’economia italiana indietro verso una situazione tipo la stagflazione degli anni Settanta: un contesto in cui l’economia era stagnante, con crescita zero o addirittura recessione e un’inflazione a livelli inusuali. Una situazione piuttosto complicata da gestire se la Bce dovesse decidere di ridurre troppo velocemente gli acquisti (prima netti e poi lordi) dei debiti pubblici nazionali, perché se è vero che la sostenibilità del debito nel lungo periodo dipende dalla capacità di crescere di un’economia, nel breve è comunque la Bce ad avere il ruolo cruciale.

La Russia invece cosa rischia?

Oltre alle sanzioni, si è parlato molto della sospensione dei sistemi di pagamento internazionali Swift. Credo gli sia stata data un po’ troppa enfasi: a parte che non sono stati interrotti per tutte le banche commerciali russe e le tipologie di pagamenti, poi si sottovaluta il fatto che la Cina ha comunque un suo sistema di pagamenti internazionale verso il quale le banche russe che lo desiderano possono comunque convergere. Insomma non mi pare un blocco così fatale per l’economia russa. Semmai è stato più importante, da questo punto di vista, aver bloccato le riserve valutarie che la banca centrale russa ha accumulato e detenuto in parte rilevante fuori dalla Russia, riserve che così non possono più essere utilizzate per sostenere il tasso di cambio del rublo che si sta fortemente svalutando. Peraltro, l’economia russa andrà sicuramente in recessione, il dubbio è solo sull’entità. Ma resta da vedere fino a che punto la Cina vorrà tenere in vita l’economia russa: a questo livello si gioca il suo potere di persuasione, il suo ruolo di mediazione, perlomeno nel circoscrivere il conflitto.

L’Italia in che modo può giocare questa partita?

Dobbiamo essere consapevoli che l’Italia da sola non va da nessuna parte, ma nemmeno l’Unione Europea se non cerca un’alleanza con gli Stati Uniti, perché la dimensione economica della Cina è tale che né l’una né gli altri, soli, reggono il confronto. Già la pandemia, e ancora prima la grande recessione del 2009, avrebbero dovuto farci comprendere l’urgenza di ripensare la globalizzazione e i suoi impatti negli ultimi tre decenni, che ha portato vantaggi enormi alla Cina e ad altri paesi minori emergenti; mentre i paesi sviluppati hanno subìto perdite, soprattutto la classe media che non ha visto crescere il suo reddito reale, anzi, in alcuni casi si è ridotto. Anche gli Stati Uniti, che dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 pensavano di trarre vantaggio, hanno dovuto amaramente ricredersi. Con il risultato che oggi la Cina è leader con un ruolo cruciale in tanti campi dell’industria e settori dell’export ad elevato contenuto tecnologico e di conoscenza. È da tempo che non si tratta più solo di prodotti a basso costo e qualità. E investe risorse enormi anche in capitale umano, terziario, ricerca e sviluppo.

Quanto pesa, in questo momento storico, la crisi di fiducia verso le istituzioni nelle relazioni economiche internazionali?

Molto, perché tutti noi vorremmo poter fare affidamento su rapporti fiduciari forti, ma non sempre riusciamo ad averli. Ed è così, per analogia, anche tra gli Stati, solo che la fiducia in politica e nelle relazioni internazionali è più impegnativa da costruire, ci vuole più tempo, e basta un attimo a ridurla fortemente o anche distruggerla. È un dato su cui riflettere e occorrerebbero leader politici disposti a impegnarsi per questo. Specie in un mondo in cui – vale la pena ricordarlo – il Pil globale è diventato negli ultimi decenni sempre più di paesi “non democratici”, attualmente circa il 50 per cento, in crescita prolungata da quattro decenni. Anche questa è una grossa sfida politico-istituzionale e culturale, oltreché economica, per le democrazie occidentali, Italia compresa.

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