Guerra che sei nei cieli, e in terra…

Di Fausto Biloslavo
04 Ottobre 2001
Il nostro inviato in Afghanistan in marcia forzata verso il Panjsher. La valle impenetrabile mai conquistata dai sovietici. Ascoltando i rumori della guerra americana e della guerriglia afghana anti-talebana. Come nel destino del fante Malek Khan di Fausto Biloslavo

Lasciando Faizabad. Il vecchio gippone russo sembra ansimare, mentre s’inerpica lungo l’impossibile pista, che scavalcando le montagne dell’Indu Kush ci porta nella valle del Panjsher, l’ultima roccaforte contro l’avanzata del fondamentalismo talebano. Di lassù, verso Kabul, gli americani stanno prendendo la mira per annichilire il regime oscurantista, che concede ospitalità a Osama Bin Laden e a dodicimila volontari, pronti a morire, dello jihad, la guerra santa islamica.

Son tornato a casa

La prima volta che sono arrivato in questo sperduto angolo dell’Afghanistan nordorientale era il 1987 e seguivo, a piedi o a cavallo, le imprese di Ahmad Shah Massoud, il compianto comandante del fronte antitalebano, ucciso da un vigliacco attentato suicida, quarantotto ore prima dell’attacco terrorista contro l’America. A quel tempo, Massoud era il leggendario combattente contro l’Armata Rossa, che aveva invaso l’Afghanistan. Le truppe di Mosca tentarono per dieci volte, con una valanga di carri armati e di bombardieri, di piegare il Panjsher senza mai riuscirci. Ironia della sorte, oggi, i russi sono i principali sostenitori del “Fronte Unito” che piange Massoud, l’ultimo baluardo davanti all’inarrestabile avanzata dei fondamentalisti, che controllano quasi il 95% del Paese. Di fatto è un vetusto aereo dei paracadutisti russi, decollato dal vicino Tagikistan, che sbarca i giornalisti di mezzo mondo a Faizabad, la “capitale” dell’ultimo fazzoletto di terra afghana non occupata dai talebani, nel nord-est del Paese. Quando il portellone di coda dell’Antonov 26 si apre, mi sembra di essere tornato a casa. Le brulle montagne sullo sfondo sono arrossate dagli ultimi raggi di sole e un gruppo di afghani in turbante, pantaloni a sbuffo e lunga tunica come si usa a queste latitudini, assiste incuriosito all’arrivo delle truppe dell’informazione, che fino a oggi hanno bellamente dimenticato che in Afghanistan si combatte da ventidue anni. Faizabad è una città che, con i dintorni, conta 60-70mila abitanti, ma non come la può immaginare un occidentale. Le case basse abbarbicate sulle colline sono fatte di fango e mattoni, e il cuore pulsante della “capitale” è il grande bazaar, che si snoda con una sequenza di gabbiotti in legno dove il commerciante, seduto a gambe incrociate, espone la mercanzia dall’alba al tramonto. L’odore di spezie si confonde con gli olezzi della fogna a cielo aperto e nella piazza centrale si vendono vestiti di sottomarca. L’aspetto curioso è che arrivano dall’odiato Pakistan, nemico giurato del “Fronte Unito”, perché ha creato e appoggia l’intervento dei talebani. Lo conferma anche Burhanuddin Rabbani, il presidente dell’Afghanistan, ancora riconosciuto dalle Nazioni Unite, anche se governa solo sul 5 per cento del territorio, dopo essere stato cacciato da Kabul nel 1996, durante la grande avanzata dei fondamentalisti. Turbante che sembra inamidato, barca bianca da saggio e giacca principe di Galles portata sopra l’usuale tunica, il presidente giura che i mujaheddin, i combattenti per la libertà antitalebani, «faranno la loro parte al fianco degli Stati Uniti per sconfiggere il terrorismo».

Allah benedica gli Usa

Tutti si aspettano l’arrivo del Settimo Cavalleggeri, più per portare aiuto che una nuova guerra. Le voci su attacchi americani entro quarantotto ore, oppure un mese, si confondono come se il Pentagono volesse far circolare ad arte tutte le indiscrezioni possibili per confondere le idee al nemico. Si spera in un cambiamento radicale della situazione anche nel misero campo profughi alla periferia di Faizabad, ricavato in un’ex caserma. Duemilaseicento persone che vivono in condizioni pietose, anche in sei sotto una tenda di quattro metri per tre. Il telone è stato regalato dai Medici Senza Frontiere francesi e al muretto in fango attorno ci hanno pensato i disgraziati che vivono in questo girone infernale a cielo aperto. Lo scorso inverno sono morti in diciotto di freddo e malattie. Il freddo e le malattie come la malaria e la tubercolosi rappresentano la normalità. Il portavoce dei profughi dimenticati, Mohammed Sedik, volto scavato e bruciato dal sole, spera che «grazie all’aiuto di Allah, gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali riportino la pace in Afghanistan».

Vivere con 700 lire

Nel frattempo continua la guerra sulle montagne di Kapisang, lungo una cresta spelacchiata e battuta dal sole. I mujaheddin hanno scavato trincee, rifugi antiaerei, postazioni per i carri armati e tirano granate sulle montagne occupate dai talebani, a uso e consumo dei giornalisti, per dimostrare che sono pronti a dare battaglia. Pir Mohammed è un generale con gli occhi a mandorla tipici dell’etnia uzbeka che ha ventidue anni di sangue alle spalle, sin dai tempi dell’invasione sovietica. «Se gli americani garantiscono la copertura aerea, ci pensiamo noi ai terroristi e ai talebani», sottolinea Mohammed. Però l’unico segno evidente dell’agognata presenza a stelle e strisce sono le granate da mortaio di centoventi millimetri, nuove di zecca, ammassate in uno dei nidi d’aquila dei mujaheddin. I quattromila uomini del generale Mohammed sono da sei mesi di fila in trincea con un soldo di 700 lire al giorno per comprarsi da mangiare e talvolta da vestire. Uno di questi soldati dimenticati si chiama Malek Khan. Denti gialli e barbone nero, ammette tristemente: «Da queste parti, la differenza fra la vita e la morte non esiste».

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