Quegli schiavisti di Manchester City e Manchester United

Il Guardian chiede di togliere dagli stemmi delle due squadre inglesi l'immagine della nave perché sarebbe un riferimento alla tratta dei neri. L'ennesimo episodio scemo di cancel culture

A pranzo con il suo erede spirituale, Carlo Verdone, un già molto anziano Alberto Sordi gli confessò di essere preoccupato per lui. «Carlo, me fai molta tenerezza… Sarà sempre più difficile per voi fare commedie… Non c’è più il senso del ridicolo», furono le parole esatte, riportate dall’attore e regista romano nel suo libro La casa sopra i portici. Come sempre, specialmente come quando lamentava lo stato di degrado della sua città in preda a orde di nuovi barbari, Sordi aveva ragione. La realtà è ora così assurda da aver svuotato il compito di comici e autori satirici. Si prende in giro da sola, principalmente con le follie del politicamente corretto, robe che in altri tempi avrebbero comportato un ricovero coercitivo in manicomio.

Giovedì, ad esempio, la deputata democratica californiana Rosa DeLauro ha elogiato il ministro dei Trasporti, Pete Buttigieg, per aver finalmente spezzato l’ingiustizia dell’utilizzo, nei test per gli incidenti stradali, di manichini con sole sembianze maschili. Ora, non è escluso che presto venga chiesto ai manichini se si identificano realmente come uomini o donne.

La nave negli stemmi delle squadre di Manchester

È caratteristica recente del mondo anglosassone, del resto, quella di inventarsi problemi laddove non esistano, allo scopo di abbattere la cultura plurisecolare che – con tutti i difetti che ha – ha contribuito ad elevare generalmente la qualità di vita di una buona fetta di mondo. In Inghilterra qualcuno dotato di moltissimo tempo libero si è messo in testa che Manchester City e Manchester United (nonché Comune di Manchester e altre istituzioni) debbano modificare il loro stemma perché contiene una nave: e le navi, si sa, trasportavano schiavi.

Iniziativa partita dal Guardian, testata progressista dai buoni sentimenti (ma solo se rivolti a chi ne condivide i fanatismi mascherati da ideali). La farsa degli stemmi delle due di Manchester è nata di fatto dalla lettera al giornale di un tizio che si era mobilitato assieme ad altri sulla questione, e ai Guardian(i) della Rivoluzione della redazione un assist del genere non è parso vero.

La rivalità con Liverpool, il canale e il cotone

La campagna è subito partita a razzo: del resto, City e United sono grandi club, di fatto multinazionali, e dunque rappresentano, così come tutta l’umanità non allineata, il bersaglio ideale degli integralismi. I fatti, giusto per contestualizzare, verbo peraltro ignoto ai fanatici: la fortuna commerciale e industriale di Manchester fu dovuta, ormai due secoli e mezzo fa, principalmente all’industria manifatturiera, esplosa dopo le invenzioni di macchinari e congegni che velocizzarono e razionalizzarono la produzione di indumenti, fino a quel momento artigianale. Il miglioramento delle condizioni produttive fece aumentare il giro di affari e l’indotto e la popolazione di Manchester passò da 40.000 a 306.000. L’unico problema era l’entità dei dazi doganali imposti dal porto di Liverpool, dove le navi attraccavano per scaricare il materiale grezzo, in gran parte cotone, proveniente perlopiù dal sud degli Stati Uniti, schiavista fino al 1865.

Per risolverlo fu deciso, a fine Ottocento, di costruire un canale che permettesse alla flotta mercantile di arrivare direttamente a Manchester, zona occidentale, più o meno nei pressi dell’attuale stadio dello United (all’epoca ancora non costruito), come in realtà era stato brevemente possibile – ma solo per imbarcazioni di dimensioni minori – anche attraverso fiumi come il Mersey e l’Irwell. Ci volle un po’ per avere frutti veri, dato che alcuni armatori non erano convinti che valesse la pena far navigare navi pesanti per 58 chilometri e a velocità molto bassa (11 chilometri all’ora), ma alla lunga il progetto ebbe successo e contemporaneamente sviluppò la rivalità tra l’apparentemente defraudata Liverpool e Manchester, anche se le cause più profonde sono altre, degne di una narrazione meno veloce di quanto non si possa fare qui.

Gli schiavisti erano davvero a Manchester?

Liverpool era sostanzialmente uno dei vertici del triangolo Europa-Africa-Stati Uniti: semplificando, e fingendo di non considerare Spagna e Portogallo che in realtà furono all’avanguardia, da Liverpool partivano le imbarcazioni che in Africa occidentale caricavano schiavi e scaricavano merci, destinate in parte al pagamento dei potentati e trafficanti africani che catturavano i loro conterranei, principalmente se appartenenti a etnie o tribù diverse, e li vendevano agli armatori; dall’Africa si andava verso l’America o le Americhe, dove venivano scaricati e venduti gli schiavi, e la tratta finale verso l’Europa era quella con le navi piene di cotone, tabacco, riso, caffè, zucchero.

Nel periodo tra 1793 e 1807, anno in cui nell’Impero venne abolito il commercio legale di esseri umani (ma i cantieri imperiali continuarono a costruire navi ad hoc per i trafficanti portoghesi, mascherate però da baleniere), passò da Liverpool l’85 per cento di questo traffico, ribaltando le proporzioni rispetto a Bristol, scesa al 3, e Londra, 12 per cento, ma sempre in secondo piano su questo fronte.

E proprio a Liverpool, in uno dei moli rigenerati e ristrutturati, c’è il Museo Internazionale della Schiavitù, estensione del Museo Marittimo, che ospita un panorama completo, doloroso e opprimente, del fenomeno della tratta degli schiavi, compresa la possibilità – sconsigliata ai deboli di stomaco – di immedesimarsi nelle sofferenze di quei poveri disgraziati che venivano catturati, caricati a forza, stipati in stive puzzolenti e invivibili poi venduti, a destinazione, perlomeno quelli che sopravvivevano e non venivano gettati in mare, o in mare si gettavano pur di sfuggire a quei tormenti.

Una polemica antistorica

Formalmente, dunque, è vero che il cotone che arrivava a Manchester, non per nulla soprannominata “Cottonopolis”, proveniva dal giro che coinvolgeva anche gli schiavi, ma questo valeva solo per il periodo antecedente al 1807, mentre dal 1865, con l’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, i materiali provenienti da oltreoceano non erano stati raccolti o coltivati da esseri umani privati della propria libertà, anche se sarebbe insensato pensare che i lavoratori delle piantagioni dal 1866 godessero di particolari agi o prospettive. Ecco allora l’inutile integralismo e fanatismo di chi chiede la cancellazione delle navi dai loghi.

Per fortuna, persino in un Regno Unito ogni giorno più prigioniero della violenza del politicamente corretto, in pochi sono caduti nel tranello: Luthfur Rahman, ad esempio, bengalese di origine e presidente laburista del consiglio comunale di Manchester, si è detto contrario alla rimozione forzata del passato della città, sostenendo che «è un’unione di storie, vite e voci. È in corso un progetto di largo respiro, nato nel 2020 [l’anno delle rivolte nel nome di Black Lives Matter, in cui a Bristol venne abbattuta la statua del mercante di schiavi Edward Colston, ndr], che vuole evidenziare e riflettere su aspetti del passato di questa città, compresa la storia delle minoranze e i legami con la tratta degli schiavi. Il nostro lavoro, di comune accordo con le istituzioni, le università e altri partner, vuole educare e trasmettere conoscenze, non rimuovere il passato».

Quelle navi, un richiamo al libero commercio

Rincara la dose, contrapponendosi a voci coinvolte nella riapertura di un dialogo, come quelle dell’ex calciatore John Fashanu, JP O’Neill, storico, specializzato nelle vicende dello United: «La logica, tra virgolette, è ridicola e contraddittoria. Non solo gli stemmi dei club sono stati creati molto tempo dopo la fine della schiavitù, ma i club stessi sono nati dopo», mentre pare che fortunatamente né City né United abbiano intenzione di modificare alcunché: attentissime al politicamente corretto, come sono obbligate a fare le multinazionali per evitare guai, paiono ancora saper distinguere tra diritti e pretese.

È del resto opinione comune, perlomeno tra le persone normali, che le navi nei loghi siano semplicemente un richiamo al Manchester Canal e al libero commercio dal quale si affermò e con il quale si è rafforzò la Rivoluzione Industriale. Per ora dunque tutto resta com’era: del resto, il suggerimento di sostituire alle imbarcazioni le api operaie, da qualche anno simbolo della Manchester operosa e attiva, poteva essere rischioso. Qualche fanatico più fanatico degli altri avrebbe prima o poi obiettato che nessuno aveva chiesto il parere alle api stesse – che la natura le conservi a lungo, tra l’altro.

Il caso del simbolo degli Exeter Chiefs

Alla fine, va detto, è nato tutto da una lettera faziosa ad un giornale fazioso, ripresa da addetti ai lavori faziosi, tanto poco numerosi quando integralisti, ma il polverone si è alzato. Come accade periodicamente, o meglio sempre più spesso: restando al Regno Unito, nella violenta estate del 2020, dopo un tentativo di quattro anni prima, nacque una campagna per costringere gli Exeter Chiefs, una delle migliori squadre di rugby a 15, a cambiare nome. Chiefs richiama i capi indiani, e pazienza se all’origine, negli USA per la nota franchigia NFL, l’appellativo originasse in parte dal soprannome di un personaggio locale.

Respinte le istanze nel 2016, nel 2020 la pressione si era fatta più forte, e nel 2022 è arrivata la resa: rimasto il nome, è cambiato però il simbolo, non più il capo indiano ma l’effigie di un guerriero Dumnone, tribù della Cornovaglia (Exeter dai romani era stata chiamata ‘Isca dei Dumnoni’). I dumnoni, del resto, sono spariti da 1500 anni, e i loro discendenti, sempre che sappiano di essere tali, sono evidentemente più in pace con se stessi e meno vittimisti di altri.

In America, ovviamente, la storia va avanti da un po’: tre anni fa i Washington Redskins furono costretti a diventare Washington Commanders, i Cleveland Indians si sono trasformati nei Cleveland Guardians e varie squadre di college e liceo hanno ammorbidito i loro soprannomi, per quieto vivere, con i soliti comunicati buonisti e fuffaroli che tanto piacciono ai Guardian di questo mondo, che hanno tanti difetti ma un pregio evidente: tanto tempo libero, se possono permettersi di elucubrare certi pensieri. O presunti tali.

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