Dalle scuole Grossman all’Ucraina, fra scatoloni e fiammelle di bene

Di Caterina Giojelli
18 Marzo 2022
La bambina coi codini e le ragazze del liceo avevano obbedito. Non a una generica chiamata alla solidarietà, ma a una indicazione precisa del Papa: «Immedesimiamoci in chi fugge, nello spavento e nel terrore»
La raccolta per l’Ucraina nelle scuole della Fondazione Grossman
La raccolta per l’Ucraina nelle scuole della Fondazione Grossman

Frequentare scuole intitolate a Vasilij Grossman, mentre le bombe cadono sull’Ucraina, significa tentare iniziative all’altezza di Vita e Destino, anche se sei alto un soldo di cacio, hai in mano un dentifricio e vivi a Milano. Significa partecipare alla storia degli eventi guardando all’unica cosa che ti è oggi familiare e che per lo scrittore di origine ucraina rappresentava, settant’anni fa, l’unico e vero baluardo contro le cose enormi, guerra, ideologia e potere: la persona. Soprattutto se è una personcina come te, e hai ancora tempo per imparare che in entrambi è custodito il principio che vince: il punto più fragile è il più vittorioso.

Scatoloni in viaggio per il popolo dell’Ucraina

Chi ha scelto le scuole della Fondazione Grossman per i propri figli sa che non c’è nulla di scontato e dovuto in quegli scatoloni in viaggio per la Polonia. La bambina con i codini aveva lasciato cadere con cura il suo pacco di pannolini nell’unico pertugio rimasto, mentre altri in grembiulino stavano cercando di individuare il contenitore delle matite e dei pennarelli. Nello stesso momento, in un altro corridoio, ragazze del liceo dai capelli lunghissimi infilavano gli assorbenti nello scatolone traboccante di flaconi di shampoo e sapone.

Bambina e ragazza erano dunque rientrate nelle rispettive classi, lasciando quella costellazione di cartone al turno dei compagni di asilo, elementari, medie e superiori avvicendati alle scatole con l’indicazione cancelleria, infanzia, igiene, varie: altri pannolini, matite, quaderni dai più piccoli, altri assorbenti, detersivi, shampoo dai più grandi. Arrivati a mille prodotti, alla Fondazione Grossman avevano smesso di contarli: chiusi i cartoni, il primo carico per la Polonia era pronto.

«Immedesimiamoci in chi sta soffrendo»

Il fatto è che bambina, ragazze e compagni avevano obbedito. Non a una generica chiamata alla solidarietà, ma a una indicazione precisa: «Immedesimiamoci nella gente che sta soffrendo, sotto attacco, in fuga, nello spavento e nel terrore». Il rettore Raffaela Paggi lo aveva ripetuto spesso quella mattina del 2 marzo, convocando piccoli e grandi in cortile «non tanto e non solo perché temiamo le conseguenze nefaste che potrebbe avere anche per noi tale conflitto, perché la nostra scuola è intitolata a Vassilij Grossman, di origine ucraina, perché ne parlano i giornali, ma in primis perché vogliamo educarci a prendere in seria considerazione ciò che pertiene l’uomo: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (sono uomo e nulla di ciò che è umano reputo estraneo a me)».

Solo allora piccoli e grandi avrebbero capito che dalla guerra non viene che male, che la guerra altro non è che «una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male», aveva ricordato Paggi citando papa Francesco nella Fratelli Tutti, il Papa che esorta a prendere «contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. (…) Guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace».

Riconoscere le fiammelle di bene

Quella mattina i ragazzi avevano recitato il rosario, cantato il Tatăl nostru, il Padre nostro della liturgia ortodossa rumena, ascoltato Čajkovskij e accettato l’invito che l’arcivescovo metropolita di Mosca, monsignor Paolo Pezzi, aveva rivolto all’incontro organizzato dall’associazione Suonate le campane e al quale la Grossman aveva invitato le sue famiglie a partecipare: «Allenare la nostra capacità di riconoscere le “fiammelle” di bene che illuminano le tenebre».

Esortati dal rettore ad aiutarsi vicendevolmente a cogliere nelle loro giornate fiammelle dii luce, i ragazzi avevano quindi risposto entusiasti alla proposta di accenderne qualcuna con il più semplice dei gesti: inviare aiuti ai profughi, affidandoli alla Ibva, lo storico Istituto Beata Vergine Addolorata di Milano che sta aiutando donne e bambini scappati in Polonia. E così, immaginandosi brancolare nel buio e bisognosi di tutto i ragazzi si erano immedesimati nei loro coetanei in fuga riempiendo di conseguenza gli scatoloni della raccolta.

Dall’uomo «ci si può attendere l’inatteso»

«Spesso sentiamo esperti sostenere che siccome nel passato le cose sono andate in un certo modo, è inevitabile che ora si ripetano le stesse scelte, le stesse azioni, le stesse conseguenze. Non è così! Ci sono infiniti esempi nel passato in cui la decisione libera e coraggiosa di un singolo uomo ha cambiato il corso della storia» aveva ricordato Paggi a ciascuno di loro citando Hannah Arendt: «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile perché ogni uomo è unico. E ancora, diversamente dalla vendetta, «l’atto del perdonare non può mai essere previsto; è la sola reazione che agisca in maniera inaspettata» e «non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quel che non si può prevedere. Preghiamo insieme perché siamo realisti!». Perché è un compito da uomini liberi e personcine in fila, dentifricio alla mano, a caccia di fiammelle di bene.

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