Il “governo Napolitano” è l’ultima occasione per il Pd: crescere o implodere

Di Luigi Amicone
27 Aprile 2013
In balìa degli sms, dei tradimenti e dei Nanni Moretti di turno, tallonato da Grillo, il Pd si sente ridotto una massa di «follower nelle mani di amebe»

Rimini, 21 aprile. A quasi vent’anni dal telegramma di congratulazioni inviato da don Giussani a un altro leader ex comunista, Massimo D’Alema, don Julián Carrón, erede spagnolo alla guida di Cl, scrive a Giorgio Napolitano l’«ammirazione» per «questo suo grande sacrificio». E confermato dal fragoroso applauso dei 24 mila presenti, il sacerdote esprime a nome di tutti i ciellini la viva partecipazione di un pezzo di popolo italiano alla passione di un paese e del suo presidente. Particolari non irrilevanti: don Carrón legge il telegramma al capo dello Stato prima di illustrare quello a papa Francesco. Come a dire: c’è una realtà, laica, che non solo ci interpella per la sua gravità e le sue conseguenze sulla vita di tutti, ma che sostanzia anche la fede e l’appartenenza alla Chiesa di tanti italiani.

Il giorno dopo, nel suo discorso al Parlamento, il capo dello Stato schianta l’irresponsabilità dei partiti, definisce «segno di regressione» il puerile «orrore per mediazione e intese». E rievoca il suo intervento di un anno e mezzo fa proprio davanti alla platea di Cl del Meeting di Rimini. Come a dire: intendo proprio rappresentare e difendere quel bene comune e rispetto dell’altro «al di sopra di qualsiasi interesse particolare» evocati nel messaggio di questi cattolici. «Ecco, posso ripetere quelle parole di un anno e mezzo fa», dice Napolitano. Bene, quanti italiani, indipendentemente dal loro credo e opinione politica, non sono ammirati dal sacrificio di un ultraottantenne che già (e giustamente) pregustava la sua prima settimana di buen retiro in quel di Capri e ha invece accettato l’invito a bissare il suo mandato per il bene dell’Italia? Probabilmente non lo ammira soltanto quella rumorosa, infima minoranza, che è andata a sbraitare in piazza Montecitorio.

È andata così. Il 12 marzo riferivamo qui di «fonti che non solo hanno accesso alle stanze quirinalizie, ma parlano con Napolitano». E prevedevamo «un esecutivo di “alto profilo istituzionale” sotto le ali del presidente». I risultati delle urne, infatti, avevano indicato chiaramente che o destra e sinistra si univano per governare. Oppure l’ostinato diniego di Bersani a negoziare con Berlusconi avrebbe fatto esplodere la bomba Grillo. Occorreva l’intervento dell’artificiere capo. E cioè, scrivevamo, un «Napolitano costretto, qualora l’intero arco delle forze costituzionali glielo chiedesse, ad accettare una riconferma al Quirinale e ad assumersi il fardello di provare ad arginare l’eruzione dell’antipolitica». Tutto è andato come previsto. Domanda: com’è possibile che Bersani non abbia previsto tutto ciò e si sia organizzato in modo da finire insultato dai “cittadini” e nella rete dei nerd di Casaleggio?

Al che, rivedi in flashback la calca al teatro Ambra Jovinelli. E il giorno dopo del latte versato. L’abbraccio di Pier Luigi alla “sorpresa” Nanni Moretti che sale sul palco per impalmare il leader Pd. E le spiegazioni che offre ai giornali Alessandra Moretti. Portavoce di un leader che ha votato in parlamento contro la voce del proprio leader. E capisci che razza di strada è stata quella che ha portato da Moretti a Moretti. Dai girotondi in carta e popolo dei fax degli anni ’90. Ai girotondi in streaming e nativo digitale del 2013. Dal simbolo più antico delle truppe attestate sul Piave dell’antiberlusconismo, il Caimano. Alla metafora dello Psiconano coniata dall’attuale leader degli scassatutto. Soldatini che magari sono stati utili a fondare e rifondare il simulacro delle “primarie” di ogni grado e livello. Ma poi, che tu vinca o perda, o fai come dicono loro. O ti sparano addosso. Vogliamo rivedere la moviola delle elezioni in Sardegna che nel 2007 decretarono la fine ingloriosa del segretario che inventò il Pd all’americana? Proviamo a riavvolgere il film dei giorni appena trascorsi in compagnia di Bersani? Cosa c’è, adesso e in tutti gli anni passati, se non il solito milieu di pensiero tagliagola che uccide il Pd e impedisce la considerazione che il mondo non è un’isola, ma c’è sempre qualcuno diverso da te con cui devi negoziare o per lo meno coabitare? E neanche puoi dire, come ha detto uno che faceva il pool F. S. Borrelli, uno che Bersani ha beneficato con una poltrona al Cda Rai, «domani prendo la tessera del Pd e la brucio».

«Più che liquido, gassoso»
Perciò, un bel giorno (23 aprile), è toccato a Eugenio Scalfari tagliare il nodo dei complessi Pd per l’M5S. «I cinque stelle sono fuori dall’Europa». Maurizio Sacconi, il berlusconiano più a sinistra che c’è, ci dice che il quadro è quello che gli ha descritto l’amica deputata Pd. «Sono scandalizzata, siamo prigionieri degli sms. Siamo follower nelle mani di amebe. Altro che liquido, siamo un partito gassoso». Commenta l’ex ministro pidiellino: «E meno male che c’è stata quell’ultima trincea di razionalità e organizzazione dei 100 franchi tiratori che hanno impallinato Prodi».

Oggi, al netto del “traditore su quattro”, delle amebe e dei gas, l’interrogativo è: ce la farà il Pd a moltiplicare le fila dei 100 e a enucleare una trincea che assicuri una solida base al governo del presidente? «Il partito è un kebab, ci stanno affettando». Se ha ragione Giuseppe Fioroni butta male. Ma se per caso il pesce pilota di una corposa maggioranza interna al Pd fosse il neosenatore Pd Massimo Mucchetti («Di fronte alla cittadina Lombardi, Mara Carfagna per sempre»), si capisce che tutto dovrebbe andare nel verso di Giorgio Napolitano. Purtroppo, è nella base del Pd, dice la cronaca degli “occupy” di turno, che si annida lo spauracchio delle scissioni. Perciò, anche se i “fattisti quotidiani” sono cascame nella giungla, come farà a non implodere un partito che fatica a esistere come chiesa osservante piuttosto che come “comunità aperta”, perennemente agitata dal culto dell’eresia? Ci fu un tempo in cui perfino dentro il Pd si discusse il tema della mancata apprensione di certi rudimenti della politica. Tipo carisma, autorità, fedeltà, disciplina. Tutte cose che non sono di “destra”. Ma semplicemente di ogni forma di organizzata e strutturata politica.

Come fai a pretendere di guidare un paese se sei un fenomeno di improntitudine verso la tua stessa classe dirigente e ti consegni al perenne assemblearismo? Come fai se, invece di organizzarti per dirigere tu le masse, sei tu che ti fai massificare (e massificare da ultimissime dalla savana, tipo il culto della rete)? Come fai se, dopo aver messo in piedi un enorme ambaradan (le famose primarie) ed eletto il tuo capo sul tam tam dei giornali, ti fai fregare addirittura dalla tua portavoce? Così, benché in società tu cavalchi l’onda di un pensiero che ti spinge e ti sciaborda, la nave ammiraglia rimane solo nell’immaginario collettivo. Non appena vari il bestione e sei in acqua, alla prima onda, ti si spegne il motore. E ti rimorchiano in banchina.

Geniale è stato far ricomparire subito e in gran spolvero, il giorno dopo il trionfo di Napolitano, l’“uomo nuovo” Matteo Renzi. Capitan sindaco, nocchiero del Pd in pectore, candidato a tutto. Segretario. Ministro. Tronista. Esorcista. Il carino, simpatico, giovane Matteo che dice tutte cose giuste. E le dice proprio bene. Pur razzolando male. E pazienza. Vuol dire che a 38 anni (e con questi chiari di luna) gli sarà perdonato tutto. Già, perché, cosa c’entra il pencolare tra uno sfregio al popolare Marini e un’apertura al grillante Rodotà, passando per l’endorsement a Prodi? L’apertura della prima pagina di Repubblica (22 aprile) col titolone sparato sul “Così rifonderò il Pd” sbianchetta i tre giorni di opportunismo del top gun della redenzione. E chiarisce ogni equivoco. «Non mi interessa questa discussione sulle larghe intese o su Berlusconi. Non mi preoccupa il Pdl, con loro abbiamo già fatto un governo». «Il partito vuole vincere con una linea diversa? Io ci sono. Vuole cambiare l’Italia? Io ci sono». «Una formazione alla mia sinistra non mi fa paura. Noi siamo il Partito democratico di Obama, di Hollande, di Clinton». «Il sistema semipresidenzialista è un punto di riferimento di larga parte della sinistra. Perché non da noi?». Che, tradotto, significa: ok all’esecutivo con Berlusconi. Sono pronto per la segreteria. Vendola faccia pure la sua scissione grillo-comunista. Cambiamo la Costituzione e introduciamo il semipresidenzialismo. Un bel programma. Dopo di che: sarà finalmente una chiesa o esploderà come una setta, il Pd?

@LuigiAmicone

Non perdere Tempi

Compila questo modulo per ricevere tutte le principali novità di Tempi e tempi.it direttamente e gratuitamente nella tua casella email

    Cliccando sul pulsante accetti la nostra privacy policy.
    Non inviamo spam e potrai disiscriverti in qualunque momento.

    Articoli correlati

    3 commenti

    1. Cisco

      La vera deflagrazione ci sarà con l’uscita di scena di Berlusconi, scompariranno sia pdl che pd come li abbiamo finora conosciuti. Sono entrembi partiti fortemente divisi da un punto di vista culturale.

      1. Giulio Dante Guerra

        Molto potrebbe fare una nuova legge elettorale, che introducesse, in un modo o nell’altro, le preferenze. Forse, molti “sederi di pietra” sarebbero rimandati a casa, e potrebbe emergere una nuova classe dirigente più seria. Di solito, il popolo è, a volte, più saggio dei suoi rappresentanti.

        1. giusy

          ogni tanto ricordiamo che la lega aveva previsto e in parte già risolto alcuni problemi, sopratutto riguardo la legge elettorale. ma si sa, lal lega non può aver ragione…….a prescindere.

    I commenti sono chiusi.