Globalizzazione: diamo i numeri?

Di Rodolfo Casadei
05 Luglio 2001
Un conto è la propaganda, un altro sono le indagini scientifiche. Secondo tutte le ricerche e le analisi degli ultimi anni l’effetto della globalizzazione economica sulla povertà è positivo: le economie aperte riducono il numero dei poveri molto più di quelle chiuse. Anche quando le diseguaglianze si accentuano, la povertà flette. E grazie al Wto le nuove tecnologie sono alla portata di tutte le tasche

Una valanga di numeri, studi e analisi vi seppellirà. Così, parafrasando uno degli slogan del Sessantotto, si potrebbero motteggiare i militanti del “popolo di Seattle” che continuano a negare l’esistenza di effetti positivi della globalizzazione economica. Questi in realtà ci sono eccome, e rappresentano anzi la parte maggiore delle conseguenze della «crescente integrazione delle economie mondiali avvenuta attraverso il commercio e i flussi finanziari» (questa è la definizione di globalizzazione economica proposta dal Fmi, il Fondo monetario internazionale). Per rendercene conto basta prendere due argomenti-bestia nera degli anti-globalisti: la povertà e il Wto (World trade organization, in italiano Organizzazione mondiale del commercio, di cui è stato direttore l’attuale ministro degli Esteri italiano Renato Ruggiero). Secondo loro la povertà viene aggravata a livello mondiale proprio dalla globalizzazione, di cui il Wto è strumento di promozione. Si può invece dimostrare che le condizioni di vita dei più miserabili di fatto stanno traendo benefici della globalizzazione, e che il Wto si sta muovendo in una direzione vantaggiosa sia per i ricchi che per i poveri.

Povertà. Come abbiamo già cominciato a illustrare in un precedente numero (cfr. Tempi n.24 a pag.18), contrariamente a quanto sostengono molti “antigiottini” la povertà nel mondo non sta crescendo, bensì diminuendo, anche se troppo lentamente. Fra il 1990 e il 1998 i poveri che vivono con meno di 1 dollaro al giorno sono scesi da circa 1,3 miliardi di persone a circa 1,2, che significa una diminuzione dal 29 al 24 per cento di tutti gli abitanti del Terzo mondo; mentre nello stesso periodo i poveri che vivono con meno di 2 dollari al giorno sono aumentati in numero assoluto (da 2,7 a 2,8 miliardi), ma sono diminuiti in proporzione dal 62 al 56 per cento degli abitanti, perché nel frattempo la popolazione totale dei paesi poveri è aumentata di oltre 500 milioni di persone.

A fare la differenza fra successo e insuccesso sembra essere proprio l’integrazione nel mercato mondiale: «Cosa hanno in comune i perdenti del XX secolo? -si domanda Gary Hufbauer dell’Institute for International Economics- Praticamente tutti hanno rigettato i legami economici internazionali esplicitamente (la vecchia Unione Sovietica e l’attuale Birmania) o implicitamente (la maggior parte dell’Africa). Cos’hanno in comune i vincitori del XX secolo? Hanno abbracciato l’economia internazionale: Giappone, Corea, Taiwan, Spagna, Irlanda, Grecia… Che cos’hanno in comune i partenti del XXI secolo? Stanno rincorrendo l’economia internazionale più velocemente che possono: Cile, Argentina, Brasile, Messico, Cina, India, Polonia…». Una conferma a questo modo di argomentare viene da uno studio del 1999 di Ades e Glaeser apparso sul Quarterly Journal of Economics: in esso si dimostra che fra il 1960 e il 1995 i paesi ricchi e i paesi poveri ad economia aperta hanno avuto la stessa crescita media annua del 2 per cento, mentre i paesi poveri ad economia chiusa sono cresciuti nello stesso periodo soltanto dell’1 per cento.

L’incidenza positiva dell’intensificazione del commercio sulla crescita del prodotto interno lordo (pil) è stata provata, fra gli altri, da Frankel e David Romer (American Economic Review, giugno 1999): un aumento del 10 per cento dell’incidenza del commercio sulla formazione del pil spalmata su un periodo di vent’anni produce un aumento del reddito pro capite del 3,3 per cento. Il modello teorico derivato da questa osservazione dice che l’aumento di 1 punto percentuale di incidenza del commercio sul pil produce un aumento del reddito pro capite che sta fra lo 0,5 e il 2 per cento. Brown, Deardorff e Stern hanno elaborato un altro modello che calcola l’aumento del pil mondiale che conseguirebbe dalla soppressione di tutte le barriere doganali e tariffarie rimaste in vigore dopo la conclusione dell’Uruguay Round (1994): la cifra ammonta alla bellezza di 1.900 miliardi di dollari, e di questi 371 spetterebbero ai paesi in via di sviluppo (pvs).

A queste messe di dati gli antiglobalisti rispondono di solito sottolineando che, anche se la povertà assoluta lentamente arretra, la globalizzazione accentua le diseguaglianze fra i paesi e all’interno dei paesi. Ciò è vero, ma solo in parte. È vero che nel 1960 il reddito pro capite dei 20 paesi più ricchi del mondo era superiore 15 volte a quello dei 20 più poveri, mentre oggi lo è di 30. È vero che nel corso del ventesimo secolo il reddito del 25 per cento più ricco dell’umanità è cresciuto di sei volte, mentre quello del 25 per cento più povero è cresciuto solo di tre volte. Ed è pure vero che all’interno di economie emergenti come sono quelle di Argentina, Cile, Cina, Colombia, Costa Rica e Uruguay la crescita economica trainata dalla globalizzazione ha accentuato le diseguaglianze fra i più ricchi e i più poveri. Ma ci sono anche altri fatti da considerare. Per esempio che non fra tutti i paesi il gap è cresciuto: il dislivello fra il reddito medio di un cinese e quello di uno statunitense, per esempio, si è dimezzato nel giro di 15 anni: è sceso dal 12,5 a 1 del 1980 al 6,2 a 1 del 1995. E all’interno dei pvs non di rado la globalizzazione ha ridotto le distanze fra i gruppi sociali creando vantaggi direttamente per i più poveri: «È difficile -spiega John Williamson dell’Institute for International Economics-mettere in dubbio che le esportazioni di beni che richiedono manodopera intensiva siano un fattore che ha causato un aumento della domanda di manodopera non specializzata. E di conseguenza un livellamento nella distribuzione dei redditi in paesi esportatori come lo Sri Lanka».

Ciò che ormai risulta chiaro è che la crescita economica, in particolare quella associata all’intensificazione degli scambi commerciali, esercita un effetto positivo “imparziale” su tutti i redditi. Uno studio di Dollar e Kraay per la Banca Mondiale (2000) basato su di un ampio campione di paesi ha concluso che in media la crescita del reddito dei poveri avviene allo stesso tasso della crescita generale del reddito medio pro capite in un determinato paese. Lo stesso vale per la crescita indotta dall’aumento degli scambi commerciali: nel caso di una maggiore incidenza del 10 per cento del commercio sul pil, il reddito pro capite crescerà ultimamente del 5 per cento sia complessivamente che presso il 20 per cento più povero della popolazione.

Da tutto ciò si può serenamente concludere che la globalizzazione è sufficiente da sola a ridurre la povertà in assoluto, ma non a ridurre la diseguaglianza fra i più ricchi e i meno ricchi. Per il secondo obiettivo serve la politica. Ma combattere la globalizzazione significa ostacolare il fenomeno che sta riducendo la povertà nel mondo.

Wto. Pronunciare il nome dell’organizzazione che dal 1995 cerca di regolare il commercio mondiale di fronte a un “antigiottino” è come agitare una mantella rossa davanti ad un toro. Non per nulla il bellicoso “popolo di Seattle” ha avuto i suoi natali proprio in occasione di un vertice del Wto. Eppure l’organizzazione può vantare meriti innegabili circa gli alti tassi di crescita economica degli ultimi anni, di cui beneficiano anche i più poveri. Secondo la nuova teoria della crescita economica elaborata da Paul Romer e da altri negli anni Ottanta, l’innovazione tecnologica ha un ruolo molto più importante di quanto avesse in passato nella crescita della ricchezza. Ciò è dovuto al fatto che oggi il costo delle nuove tecnologie diminuisce, dopo la loro invenzione, molto più rapidamente e più massicciamente che in passato. Nel 1850 il costo dell’energia delle macchine a vapore era inferiore al suo livello del 1790 (anno della scoperta) soltanto del 50 per cento, per una diminuzione annua inferiore all’1 per cento. L’energia elettrica ha conosciuto un andamento un po’ più accelerato: nei primi tre decenni del suo utilizzo, fra il 1890 e il 1920, il suo prezzo è diminuito in media del 6 per cento all’anno. Nulla di neppure lontanamente paragonabile all’epopea dei moderni computer: nei tre decenni che vanno dalla fine degli anni Sessanta ad oggi il costo della capacità operativa di un computer è diminuito di un favoloso 99,999 per cento, pari ad una flessione del 35 per cento all’anno. Oggi con un costo pari ad un centesimo di dollaro si può spedire un documento di venti pagine all’altro capo del mondo via e-mail, mentre alla fine del XIX secolo un telegramma di 20 parole per varcare l’oceano doveva pagare 200 dollari. Anche il costo delle chiamate telefoniche è drammaticamente declinato: negli anni Trenta una telefonata di 3 minuti fra New York e Londra costava 300 dollari attuali, oggi la stessa chiamata costa meno di 20 centesimi di dollaro, e si può dunque calcolare una flessione annua del costo da allora ad oggi del 10 per cento.

Il merito di tutto ciò va anche alla liberalizzazione del commercio e dunque al Wto, come spiega con orgoglio il successore di Renato Ruggiero, l’australiano Mike Moore: «Scoperchiate il vostro PC americano venduto in Europa, e scoprirete chip di memoria giapponesi e sud-coreani, un microprocessore proveniente dal Costa Rica, un disk drive di Singapore e una scheda madre di Taiwan, il tutto assemblato in Irlanda. Il commercio internazionale di tutto questo hardware per computer non è soggetto a dazi in molti paesi grazie all’Accordo Wto sulla tecnologia informatica firmato nel 1997. Entro il 2004 questo accordo porterà all’eliminazione delle tariffe doganali su 600 miliardi di scambi commerciali annuali in semiconduttori, computer, equipaggiamento per telecomunicazioni, circuiti integrati e altro hardware per computer. Senza il Wto, i PC costerebbero di più. Un altro importante accordo raggiunto in sede Wto nel 1997, quello sulle Telecomunicazioni di base, sta abbassando i costi dei servizi di telecomunicazione su cui si fonda l’intero fenomeno di Internet. In base a questo accordo, 85 paesi hanno deciso di permettere alle compagnie straniere di operare sui loro mercati. Gli effetti, soprattutto nei mercati che prima presentavano un assetto monopolistico, sono clamorosi. La competizione ha abbattuto i costi di qualunque comunicazione, dalle telefonate a vostra zia in Australia alla navigazione nel Web tramite portatile, ai collegamenti Internet delle grandi imprese, alle trasmissioni di dati per via satellitare». Se il “popolo di Seattle” e i suoi cappellani volessero davvero, come dicono, combattere il “digital divide” che sta crescendo fra ricchi e poveri, dovrebbero applaudire e sostenere le iniziative del Wto. Invece lo fischiano o gli tirano le pietre. Per ignoranza, si spera.

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