
Gli ultimi di Qaraqosh hanno capito il Papa più degli analisti del Corriere

«Il Papa qui, a casa nostra, ma ti rendi conto?». Padre Roni Momika sapeva tutto di come si sarebbe dovuta svolgere, quel 7 marzo 2021, la visita di Francesco a Qaraqosh, la città cristiana più importante della Piana di Ninive, nel martoriato Iraq. Eppure ancora non ci credeva. Bergoglio doveva arrivare alle 11 del mattino e recitare l’Angelus, ma lui alle 6 era già di fianco alla chiesa dell’Immacolata Concezione con una folla impressionante di cristiani a ripassare i canti, ripetere i gesti preparati per settimane, verificare che tutto fosse in ordine per il grande giorno, perfino l’asfalto della strada, appena rifatto.
L’attesa del Papa in Iraq
Cercando di capire a che cosa fosse dovuta tanta esaltazione, lo seguivo mentre lui, con la talare nera sporca di intonaco e polvere, si arrampicava sul tetto di una casa per scrutare l’orizzonte, sotto lo sguardo attento dei cecchini dell’esercito iracheno, pur sapendo che mancavano ore all’atterraggio dell’elicottero con a bordo il Papa.
I giornali, in questi giorni di lutto, descrivono Francesco come il pontefice che più di tutti ha desacralizzato la figura del papa, limitandosi a presentarsi come semplice vescovo di Roma, rinunciando a titoli, onorificenze, privilegi (veri o presunti), ossequi.
Eppure padre Roni, il sacerdote siro-cattolico che sette anni prima, nel 2014, come tutti gli altri abitanti di Qaraqosh, era dovuto scappare a causa dell’avanzata dei terroristi islamici dell’Isis, non aspettava soltanto un uomo vestito di bianco a bordo di una utilitaria. Non era un nonno saggio né un dispensatore di buoni consigli che quei cristiani vestiti a festa attendevano sotto il sole cocente. Non era neanche per vedere o sentire un “rivoluzionario” – moderno o conservatore – che si erano alzati all’alba.
I cristiani di Qaraqosh come Zaccheo
Perché i 25 mila cristiani di Qaraqosh erano così felici? Perché si assembravano in piena pandemia di Covid-19 agli angoli delle strada incuranti del virus? Perché le donne erano tutte agghindate, con il loro abito migliore, e gli uomini si issavano i bambini sorridenti e un po’ storditi sulle spalle?
La ragione è semplice, ma difficile da cogliere a chi guarda a papa Francesco con gli occhiali della politica vaticana o di quella internazionale: i cristiani di Qaraqosh si erano improvvisamente ritrovati protagonisti della parabola di Gesù degli operai mandati a lavorare nella vigna (Mt 20, 1-16). Loro, che erano stati cacciati dalla propria terra dagli islamisti, che avevano accettato di perdere ogni possedimento materiale pur di non rinunciare alla fede, che non avevano ricevuto neanche un dinaro iracheno dal governo per ricomprarsi i vestiti, che erano tornati due anni dopo a Qaraqosh solo per ritrovarla distrutta, con le chiese rase al suolo e le abitazioni bruciate, loro, ultimi tra gli ultimi, erano improvvisamente diventati i primi.
E non erano i primi perché la Cnn si degnava di filmarli con le sue telecamere e il New York Times si appuntava le loro parole, erano i primi perché papa Francesco, vicario di Cristo sulla terra, aveva deciso di passare un’ora del suo tempo con loro. I cristiani di Qaraqosh erano entusiasti perché il gesto del Papa di recarsi in quella piccola cittadina del nord dell’Iraq li faceva sentire come Zaccheo, quando Gesù si autoinvitò a pranzo a casa sua senza chiedere il permesso.
L’esaltazione del Centrafrica
La stessa atmosfera festosa, la stessa gioia, sguaiata e inopportuna, la stessa esaltazione l’ho vista in Centrafrica nel 2016 durante la chiusura della Porta santa, che papa Francesco aveva aperto l’anno prima a Bangui in modo del tutto irrituale.
Anche in quel caso, come in Iraq, tutti avevano sconsigliato a Bergoglio di andare in un paese dell’Africa pressoché sconosciuto, relegato in fondo a tutte le classifiche internazionali, segnato dalla guerra, dagli attentati, dagli scontri tra milizie, dalla miseria, dalla diffidenza tra cristiani e musulmani, senza un esercito degno di questo nome, senza un governo degno di questo nome, senza un servizio di sicurezza in grado di garantire la sicurezza.

«Non è possibile che il Papa venga qui»
Tutti gli avevano suggerito di non andare e invece papa Francesco disse che pur di farlo si sarebbe «paracadutato». E quando rese il mondo partecipe della sua intenzione, sull’aereo di ritorno dal viaggio nelle Filippine, a Bangui tutti si ripeterono: «Si sarà sbagliato, non è possibile che il Papa venga qui».
Non è possibile, cioè, che il successore di Pietro voglia visitare un luogo dove i terroristi assaltano i fedeli nelle chiese, dove le strade non sono asfaltate, le fogne marciscono a cielo aperto, i macellai buttano la carne fresca su carretti di legno in mezzo alla strada e alle mosche, sotto il sole cocente, dove la gente non ha niente da mangiare e poco da condividere.
Eppure è qui che Francesco ha aperto il Giubileo straordinario della misericordia, chiedendo a tutti di rinunciare alla vendetta non a parole, ma recandosi in prima persona nel pericoloso Kilomètre 5, il quartiere musulmano della capitale, a quel tempo ancora sede di scontri e violenze.
«Anche se non lo meritiamo è venuto»
E il Papa non si è limitato a questo, come ricordato ieri a Tempi dall’arcivescovo Dieudonné Nzapalainga. Si è spinto oltre, dichiarando Bangui la «capitale spirituale» del mondo. Una definizione incredibile, commentata così dal cardinale l’anno dopo, davanti a migliaia di cristiani in festa per la chiusura della Porta santa:
«Come si può immaginare un futuro per il paese se abbiamo ucciso, rubato, stuprato, bruciato? Se i bambini non vanno a scuola, se c’è miseria, non ci sono strade e lo Stato non governa su tutto il paese? Anche se non ce lo meritiamo, il Papa è venuto a visitarci e ci ha detto che siamo la capitale spirituale del mondo. Ed è vero: quanti di noi si sono affidati a Dio e non alle armi? Quanti hanno continuato a sperare? Quanti hanno continuato a pregare? Il perdono di Dio è più grande del nostro peccato e la nostra missione è continuare a seguire la via dello spirito e non della carne. Che Maria ci aiuti e ci accompagni in questo cammino».
La grandezza di papa Francesco
Con la sua semplice presenza in mezzo a popolazioni ignorate dal mondo, segnate dalla sofferenza, dal dolore e dalla guerra, papa Francesco ha fatto capire – a gesti più che a parole – che per la Chiesa cattolica non esistono luoghi irrilevanti e persone insignificanti.
I giornali, soprattutto i più anticlericali, non fanno che sperticarsi in untuosi elogi per gli aspetti più mondani, politici e terreni del papato di Bergoglio. Ma in Iraq e in Centrafrica ho visto che la gente non aspettava «un uomo venuto dalla fine del mondo», ma un testimone della speranza oltre ogni speranza che si può fondare solo su chi non è di questo mondo.
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