
Gli insospettabili fans di “Big Oil” Donald Trump

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Come la guerra si dichiara per ristabilire la pace o la fidanzata si molla perché merita senza dubbio di meglio, qualche settimana fa il governo saudita ha comunicato la decisione di introdurre una serie di tasse «per tutelare la salute» dei sudditi di re Salman: una del 100 per cento sul tabacco, un’altra del 50 per cento sulle bibite gassate. E poi un’imposta sui consumi, di fatto l’introduzione dell’Iva, con un’aliquota al 5 per cento. Per Riyadh, abituata a vivere (bene) con i soli proventi del petrolio, la scoperta del fisco è una prima assoluta. D’altro canto il crollo dei prezzi del greggio, dal 2014 in poi, ha costretto molte economie petrolifere (dalla Nigeria al Brasile, dal Venezuela alla Norvegia) a correre ai ripari e diversificare le fonti di reddito, con alterne fortune. Allo stesso tempo, si è cercato di incidere sulle quotazioni del petrolio per ottenere anche rapidamente (la diversificazione richiede tempi lunghi e nervi saldi) un parziale riequilibrio dei bilanci pubblici.
È così che lo scorso 30 novembre i paesi dell’Opec, la principale organizzazione dei produttori petroliferi, più un gruppo di altri Paesi – tra cui la Russia – hanno stabilito una stretta sulla produzione di greggio. Una mossa per rendere più scarso l’oro nero sui mercati globali e spingerne al rialzo i prezzi. La strategia però, fatto salvo un iniziale rimbalzo, non sembra aver funzionato molto: i futures sul petrolio Wti oscillano da settimane intorno ai 53-55 dollari al barile. Le ragioni dello stallo sono molte. Innanzitutto, la politica di risparmio energetico dei sauditi, sul fronte interno, ha consentito nelle ultime settimane all’Arabia di ridurre l’output di greggio senza incidere realmente sulle esportazioni. I numeri, poi, suggeriscono che – al di là delle dichiarazioni ufficiali – non tutti nel club dell’Opec stiano realmente rispettando le consegne: basta guardare i dati sulle importazioni di petrolio da parte della Cina. Che a gennaio, a dispetto delle attese, sono cresciute proprio dagli undici paesi Opec: in particolare, l’incremento è stato del 28 per cento su base annua e del 4 per cento rispetto a dicembre 2016, con Arabia Saudita, Angola e Iraq in prima fila ad approfittarne. La Russia deve invece aver tenuto fede ai patti, dal momento che le vendite di greggio da Mosca a Pechino, a gennaio, sono calate del 10 per cento.
L’altro fattore che contribuisce a tenere bassi i prezzi del petrolio è l’iper produzione americana. Gli Stati Uniti sono ormai al livello di 9 milioni di barili al giorno, le scorte sono cresciute negli ultimi mesi di quasi il 10 per cento. E la prospettiva, secondo un recentissimo report di Goldman Sachs, è che entro il 2018 si arrivi a una produzione di circa 10 milioni e mezzo di barili al giorno, quanto la Russia e più dell’Arabia Saudita – anche grazie agli incentivi fiscali promessi dall’Amministrazione Trump a Big Oil, l’industria petrolifera americana. La nomina di Rex Tillerson, ex ceo di Exxon Mobil, a segretario di Stato è molto più di un conflitto d’interessi: è un manifesto politico. Lo shale oil, il petrolio di scisto che sta rivoluzionando l’industria estrattiva statunitense, è l’arma in mano a Trump che promette di garantire nel medio termine l’indipendenza energetica di Washington. Grazie a tecnologie che hanno consentito, negli ultimi tempi, di ridurre i costi di estrazione del 40 per cento, lo shale oil americano sta sempre più diventando un rompicapo per i Paesi dell’Opec, e in particolare per i sauditi. Perché se da un lato il taglio alla produzione ha quantomeno impedito al petrolio di deprezzarsi ulteriormente (le quotazioni erano scese, lo scorso autunno, a circa 40 dollari al barile contro i 100 del 2014), è vero anche che immettere meno greggio sul mercato, mentre gli Stati Uniti conducono un’aggressiva politica di iper produzione, significa perdere quote commerciali, e quindi influenza geopolitica.
L’altra arma in mano a Trump è l’alleanza con il Canada. Più diversi non potrebbero essere, The Donald e il fighettissimo Justin Trudeau, primo ministro liberal e figlio d’arte. Ma dove non arriva la politica, può arrivare il denaro. I due si sono incontrati per la prima volta alla Casa Bianca lo scorso 13 febbraio. Hanno accennato a «piccole modifiche al Nafta» (una delle promesse elettorali di Trump), ma soprattutto hanno fatto quello che con l’ambientalista Obama non sarebbe mai stato possibile: sbloccare i lavori per l’oleodotto Dakota Access e riparare la strada al progetto Keystone XL. Due vie del petrolio (quello estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta, soprattutto) che promettono di completare il progetto di autarchia energetica nordamericana. A fronte di tante possibilità, e con la prospettiva di una sempre più ampia offerta, non sono pochi gli analisti che scommettono su un ulteriore calo delle quotazioni del greggio nel medio termine. I più scommettono su quota 40 dollari al barile, qualcuno azzarda 30. Pochi credono che possa a lungo restare sopra i 50. In tutti i casi, un dramma per quei Paesi i cui bilanci dipendono troppo dall’export petrolifero.
Cosa dovrebbe fare Roma
Viceversa, c’è chi potrebbe festeggiare. L’Europa, che non produce petrolio ma lo importa, beneficerebbe di sicuro da un abbassamento dei prezzi. Anzi: la possibilità di ottenere prodotti energetici a buon mercato anche a breve termine potrebbe addirittura incidere profondamente sulla politica monetaria dell’Eurozona. Il presidente della Bce, Mario Draghi, ha più volte ripetuto che l’obiettivo di Francoforte consiste in questa fase nel favorire la ripresa economica dei 19 paesi che adottano la moneta comune. Un obiettivo raggiungibile – ha precisato – con un’inflazione vicina o pari al 2 per cento. A gennaio, Eurostat ha registrato un incremento dei prezzi al consumo dell’1,8 per cento su base annua. A febbraio il dato è salito al 2 per cento. Numeri che stanno spingendo, e spingeranno sempre di più, i paesi del Nord (Germania in testa) a chiedere di seguire l’esempio della Federal Reserve, e aumentare i tassi d’interesse per tenere sotto controllo l’inflazione, un’ossessione che i tedeschi si portano dietro dai tempi della Repubblica di Weimar. Per i paesi del Sud come l’Italia, alle prese ancora con un’economia nel ristagno degli zerovirgola, un colpo di grazia che oltretutto aumenterebbe i costi di rifinanziamento del debito pubblico.
Draghi, per ora, ha spiegato che la Banca centrale europea non procederà a una stretta sui tassi finché il rialzo dell’inflazione non si sarà consolidato in una tendenza costante per più trimestri. Ha anche aggiunto che buona parte dei rincari è dovuta al pur flebile aumento dei costi dell’energia e non testimonia quindi un rafforzamento del quadro economico generale. Il dato però resta, e la pressione di Berlino e soci rischia di aumentare, se la media dei prezzi non tornerà a scendere. Così, con lo shale oil americano che promette di ridurre il prezzo dell’energia, è difficile pensare che al numero uno della Bce possa dispiacere la scommessa petrolifera di Trump. E anche Roma, sotto sotto, farebbe bene a tifare per Big Oil.
Foto Ansa
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