C’è un giudice a Milano (la triade mafiosa chissà)

Di Maurizio Tortorella
27 Ottobre 2023
Una “confederazione” criminale in Lombardia? «La teoria non sostituisce la prova». La strigliata del gip Tommaso Perna alla Procura (che chiedeva 151 arresti) è una lezione di rispetto delle garanzie del processo penale
Una cinquantina di manifestanti davanti al Palazzo di Giustizia di Milano per un presidio in solidarietà di Alfredo Cospito e contro il regime di 41 bis, Milano, 24 marzo 2023.ANSA/MOURAD BALTI TOUATI

Poca chiarezza nell’addebito dei reati. Nessuna prova che dimostri l’effettiva esistenza di un’associazione criminale mafiosa tra gli indagati. Soprattutto, non esiste «nessuna prova della forza intimidatoria espressa sul territorio». È un’ordinanza davvero molto interessante quella firmata da Tommaso Perna, il giudice delle indagini preliminari di Milano che il 24 ottobre ha respinto la richiesta di arrestare 140 persone, presentata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci e dal sostituto procuratore Alessandra Cerreti. Il giudice, di fatto, ha negato buona parte del sottofondo «mafiologico» che gli inquirenti credevano di aver dimostrato.

Il risultato è negativo per la Procura. I due pubblici ministeri avevano chiesto misure cautelari per 151 indagati su 153, mentre il giudice le ha consentite per appena 11 di loro, e solo per accuse specifiche e in definitiva «minori»: porti d’arma senza autorizzazione, estorsioni e minacce, traffici di stupefacenti, evasioni fiscali. Se è vero che il risultato può essere deludente per gli inquirenti – che hanno subito annunciato un ricorso al Tribunale del riesame – resta il fatto che la decisione è comunque importante perché impone il rispetto delle fondamentali garanzie del processo penale.

La maxi indagine sulla «confederazione mafiosa» in Lombardia

A non essere passata, in definitiva, è l’ipotesi principale della Direzione distrettuale antimafia di Milano, che sulla materia indaga ormai dal 2019: e cioè che in parte della Lombardia esistano collegamenti diretti tra la mafia siciliana, la ’ndrangheta calabrese e la camorra napoletana. L’ipotesi, in buona sostanza, nasce dalle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, tra i quali spicca Emanuele De Castro, arrestato nel 2009 e – malgrado le origini palermitane – descritto come il primo grande «pentito» di ’ndrangheta.

L’accusa si è convinta che in parte della Lombardia sia da tempo pericolosamente attiva una nuova «confederazione mafiosa», impegnata tra le altre cose a riorganizzare la «locale» – così viene chiamata la cellula organizzativa alla base della ’ndrangheta – di Lonate Pozzolo (Varese). In Lombardia, secondo la Dda, le ’ndrine calabresi sarebbero state affiancate da alcuni fedeli del defunto boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, e da emissari del clan camorristico dei Senese. Non è la prima volta che s’ipotizzano e che in effetti si realizzano accordi operativi tra le diverse mafie. Negli anni Novanta, proprio a Milano, si indagò a lungo su «gruppi di fuoco congiunti» tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra.

La Procura chiede 151 arresti. Ne ottiene 11

In base all’accusa, però, stavolta la «triade» mafiosa avrebbe creato una sua propria organizzazione, dotandosi di «un suo programma», e avrebbe stabilito anche «regole e ritorsioni per chi le viola». Secondo la Procura di Milano, la «triade» agirebbe in base a logiche indipendenti dalle sue tre singole componenti, e sarebbe in grado di avere «contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale e bancario».

Di tutto questo, però, il giudice Perna scrive di non aver trovato prove sufficienti nelle carte con cui i due pubblici ministeri chiedevano i 151 arresti. Nelle oltre 2.000 pagine dell’ordinanza, il giudice sottolinea che la «triade» di cui si ipotizza l’esistenza avrebbe una natura «addirittura unica nel panorama storico e geografico della nazione», ma aggiunge che «una volta affermata la natura innovativa della consorteria in disamina», la Procura avrebbe dovuto «individuare e tipizzare un’autonoma associazione criminale».

La strigliata del gip: «Dove sono le prove?»

Il giudice, invece, obietta che la ricostruzione fatta dall’accusa «è carente, non essendo emersa la prova, nemmeno indiziaria, del fatto che gli indagati si siano volontariamente associati in un unico sodalizio». Dagli atti, scrive Perna, è emerso al massimo che «erano associati all’interno di singoli sottogruppi, piuttosto disomogenei e talvolta composti da meno di tre individui, dediti in qualche modo allo svolgimento di attività lecite e illecite».

Il giudice aggiunge che «è del tutto assente anche la prova del fatto che, all’interno del sodalizio confederativo, alcuni degli indagati svolgano il ruolo di promotori o capi, dovendosi piuttosto escludere che qualcuno di loro goda di un potere e di un’autorità tali da poter impartire ordini a membri di gruppi diversi da quello proprio di appartenenza». Mancherebbe anche «la prova che sia stata costruita un’organizzazione stabile, posta in essere allo scopo di realizzare un programma criminoso comune, protratto nel tempo, con una ripartizione di compiti tra gli associati, ossia il vincolo associativo».

La tesi della “triade” resta una «mera ipotesi investigativa»

I pm, insomma, non avrebbero saputo individuare le caratteristiche tipiche e proprie di un’organizzazione mafiosa. Non avrebbero saputo descrivere i comportamenti della «triade», né individuare il suo metodo mafioso, né farlo emergere mostrando i tipici stili comportamentali impiegati dai clan attivi in altre aree geografiche.

Il giudice, correttamente, sottolinea che sono proprio queste, in base alla giurisprudenza, le caratteristiche che concorrono a formare la prova di un’associazione criminale di tipo mafioso: il fatto che sia radicata sul territorio, che abbia una struttura gerarchica, che faccia uso di armi e che usi la forza per intimidire le sue vittime, imponendo loro il silenzio (l’omertà). Secondo Perna, la prova di tutto questo «è assente», e quindi la tesi della «triade», almeno fin qui, resta «una mera ipotesi investigativa».

C’è un giudice a Milano

L’ordinanza è a tratti dura con gli inquirenti. Vi si legge che la richiesta di misure cautelari «si dimostra carente sotto molteplici punti di vista»: dalla «individuazione degli elementi a suffragio della concreta capacità intimidatoria» alla «struttura del sodalizio criminale», passando per la «prova della partecipazione al sodalizio». Secondo Perna «non è stato individuato alcun atto di intimidazione posto in essere da parte degli indagati», né «si è registrata alcuna forma di violenza o minaccia». E non esiste nemmeno la prova di «elementi fattuali specifici da cui poter desumere che la collettività di riferimento ha percepito l’esistenza di un gruppo criminale di stampo mafioso, venendo condizionata e soggiogata dalla sua forza di intimidazione latente, implicitamente desunta dal contesto e sopportata con atteggiamento omertoso». In breve: nessuno si sarebbe accorto di niente.

Il giudice ricorda ai pm milanesi che in un palazzo di giustizia la teoria da sola non basta, che non bastano le ipotesi di reato, e che per fare i processi (e soprattutto per arrestare decine o centinaia di persone) servono prove concrete. In assenza della prova dell’esistenza di un sodalizio criminale mafioso, quindi, le esigenze cautelari vanno valutate esclusivamente in base a quanto emerge sui reati-fine di cui si è raggiunta la prova. Per l’appunto le estorsioni, il traffico di stupefacenti, il porto d’arma privo di autorizzazione.

In definitiva: chissà se c’è la triade mafiosa in Lombardia. Ma di certo c’è un giudice a Milano.

Foto Ansa

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