
Giubileo delle carceri. Porta Santa senza sbarre

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La prima volta che entrai in un carcere fu parecchi anni fa. Accompagnavo il senatore Fiorello Cortiana in una visita ispettiva alla Casa Circondariale Don Bosco di Pisa, in cui all’epoca era detenuto Adriano Sofri. Avrò avuto una ventina d’anni e il carcere lo vedevo da fuori passeggiando a Trastevere, lo ascoltavo in qualche racconto o ancor peggio negavo alle volte la sua esistenza come si fa con tutte le cose che temiamo. Perdere la libertà di camminare, di gridare, di leggere in un parco, di fumare un sigaro in una cena tra amici, di amare è il pensiero che ci spaventa di più, unito solo alla morte. Ogni cella equivale ad un girone infernale da tenere lontano dagli occhi e dal cuore, ogni cella diventa uno sgabuzzino dove rinchiudere nella nostra coscienza tutti i nostri reati per cui nessuno ci ha giudicato, ma che in realtà sappiamo essere pendenti. L’ossessione della nostra innocenza crea l’ossessione della pulizia sociale e così nel corso dei decenni gli hotel di Stato sono sempre rimasti a latere della nostra vita. Si evoca il carcere duro per mafiosi, delinquenti di ogni tipo, si chiede la costruzione di nuove prigioni per sentirci più sicuri e per carezzare la costante marea di populisti e manettari che nella società politica italiana conservano un fascino mai sopito. E così la giustizia diventa una mannaia, una giustizia che, il più delle volte, esigiamo per gli altri ma da cui prendiamo le distanze se riguarda noi, una giustizia che una volta brandita e urlata ha come temibile punizione il finire dietro le sbarre.
A Roma, dove siamo bravi a trovare una funzione positiva a qualunque cosa rappresenti disagio, minaccia o paura, gira una filastrocca che recita: «A via de la Lungara ce sta ‘n gradino, chi nun lo salisce nun è romano e né trasteverino» (A via della Lungara – la strada dove è ubicato il carcere di Regina Coeli, ndr – c’è un gradino, chi non lo sale non può considerarsi né romano e né trasteverino”, un sapiente adagio per trasformare l’entrata in galera in un passaggio obbligato per ricevere la cittadinanza romana e trasteverina. Oltre la goliardia, l’adagio svela una condizione reale: se si è varcata la soglia di un penitenziario non si torna come prima, si diventa cittadini di una Repubblica diversa, si diventa sia da detenuti sia da detenenti un prodotto sociale nuovo, si diventa dei malati terminali permanenti.
La parola chiave
Con questi pensieri e con un carico di dolore interiore profondo ho varcato la Porta Santa più importante quest’anno, senza nulla togliere alla sacralità delle basiliche giubilari romane, ma le grate della casa circondariale della Dozza a Bologna hanno per me rappresentato il viaggio più lungo, l’esercizio più alto della tanto sbandierata “misericordia”.
È facile parlarne quando magari le centinaia di catechesi hanno come effetto la tua personale, le tue piccole e grandi ferite, i tuoi torti e le tue paventate ragioni, ma quando innanzi a te si stagliano fratelli che hanno ucciso altri uomini, fratelli che hanno usato violenza contro altre persone, che per qualche spiccio da rapinare sono arrivati a modificare il corso di decine di vite, in quel momento, quando per un attimo i miei occhi hanno incontrato i loro, ho sentito una ferita enorme, come una lancia che oltrepassasse ogni confine della razionalità imposta dalla professione giornalistica, dal credere potentemente, dall’avere quel senso di miseria verso me e le mie complicate ascendenze, in quel momento ho visto mille volte il mio sguardo uguale al loro, in quel momento ho compreso l’essenza del dolore vero e profondo e mi sono tornate alla memoria le parole del cardinale Carlo Maria Martini a proposito del dolore di Cristo sulla croce: «Dopo il lungo silenzio di fronte agli accusatori di ogni tipo, di fronte ai maltrattamenti e alle ingiustizie, Gesù, nel momento della morte, esce con il grido: “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?”. È la parola di qualcuno che, avendo interiorizzato tutte le delusioni, le amarezze e i dolori del mondo, avendo sentito cadere sulla sua persona tutto il mistero della sofferenza ed avendo cercato una ragione, un senso per questo terribile mistero, trova finalmente nelle Scritture la parola chiave, il versetto che interpreta il suo vissuto».
Solo coi propri errori
Sentire su di sé il dolore del mondo intero è forse la grazia più grande che varcare la Porta Santa di un carcere ti dona, perché per un momento non hai una scenografia da compiacere, sei solo, come non lo sei stato mai con la tua povertà, con il tuo errore e con la tranquilla consapevolezza che al posto di quei detenuti che hai davanti potevi esserci anche tu.
Renderci uguali, spogliati davanti a Dio e davanti agli uomini, è la grande lezione che papa Francesco ha imposto nelle agende dei nostri vertici quotidiani, del nostro stare nella società. Quando insieme a Chef Rubio ho varcato la soglia del penitenziario bolognese, lui per insegnare a cucinare ed io per documentare quel momento, non pensavo che quelle inferriate avrebbero avuto un effetto corrosivo, detergente sulla mia anima, non pensavo che mesi dopo queste parole di papa Francesco tornassero così forti: «Vivere il Vangelo è il principale contributo che possiamo dare. La Chiesa non è un movimento politico, ma è chiamata ad essere lievito, con amore fraterno, solidarietà e condivisione. La crisi attuale non è solo economica e culturale, è in crisi l’uomo come immagine di Dio; è perciò una crisi profonda, per questo la Chiesa deve uscire verso le periferie esistenziali».
Ma chi le attraversa queste periferie? Chi prende un autobus per andare in carcere? Chi nella società si scontra contro il muro che vorrebbe relegati i detenuti ad un fine pena mai? Chi comprende che il non perdonare gli altri, l’utilizzare il carcere come strumento di tortura sociale, di speculazione politica, in realtà non è nient’altro se non perdonare se stessi e condannarsi ad un ergastolo ostativo dettato dalla propria non conoscenza?
Polizia, volontari, cappellani
Sono pochi quelli che percorrono queste città carcerarie: ci sono gli agenti di Polizia penitenziaria, un corpo che nel corso dei decenni ha subìto una trasformazione radicale e che, grazie al lavoro di tanti, si pone sempre di più come la prima nuova intermediazione umana tra i detenuti e il mondo esterno; ci sono le cooperative che cercano di convertire il potenziale distruttivo di ogni detenuto in potenziale costruttivo, in fattore reagente; ci sono i tanti cappellani nelle carceri che sono corpo vivo di Cristo e carne viva del Vangelo, pastori di un gregge che non può brucare l’erba se non nel ristretto orizzonte dove è recluso. E poi c’è chi il carcere ha provato a raccontarlo come Ambrogio Crespi, regista del docufilm Spes contra spem – liberi dentro presentato alla Mostra del cinema di Venezia e prodotto in collaborazione con Index Production e Nessuno Tocchi Caino, che va oltre la retorica che trasuda dalla narrazione di genere e ci restituisce in questo Anno della misericordia i ritratti degli ultimi degli ultimi: gli ergastolani ostativi, quelli del “fine pena mai”.
Nessuna pretesa di clemenza
Un film coraggioso che tocca i nervi scoperti delle nostre coscienze, che si scontra con gli stessi sguardi che ho incontrato alla Dozza di Bologna o al Don Bosco di Pisa. Un docufilm lontano dalla “gerarchia delle cose urgenti”, lontano dalla vita quotidiana di ogni persona. Criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi ci accompagnano in un viaggio che forse con le nostre timide coscienze non avremmo potuto mai intraprendere; una navigazione profonda dentro ad anime oscure, un viaggio nel buio profondo attraverso squarci di luce che come dei lampi accecano chi li guarda. Volti, racconti e nessuna pretesa di clemenza, nessun buonismo, nessuna posizione ideologica preconcetta.
Un docufilm che ci racconta che un uomo non è il reato che compie. Un docufilm politico, che pone attraverso la voce del condannato e dell’amministrazione penitenziaria la prospettiva, il senso della pena e la sua espiazione; la questione della redenzione ma non certo il perdono. Una pellicola che può diventare strumento di misericordia attiva, che alla fine pone una domanda umana: può esistere la rinascita pur essendo condannati a morire in carcere?
Tutto questo miscuglio di sentimenti, passione, amore, misericordia e debolezza del nostro sistema interiore sembra dirci che il carcere è materia complessa perché è l’unica istituzione dello Stato, insieme alla scuola, ad avere potere formativo sugli individui, a rieducarli, a reintrodurli nella società con successo ed è complesso perché riguarda il pubblico e il privato e se il privato se ne può occupare attraverso le parole del Papa, la propria coscienza, un proprio pensiero laterale, la politica sembra molto lontana dalla meta.
In questo rimane sempre l’eccezione del Partito radicale transnazionale, che dopo il suo congresso di settembre, svoltosi all’interno del carcere di Rebibbia, il primo dopo la scomparsa di Marco Pannella, ha lanciato per il 6 novembre, in concomitanza con il Giubileo dei detenuti, una grande marcia per l’amnistia, la giustizia e la libertà intitolata a papa Francesco e a Marco Pannella.
Un dibattito scandaloso
Dal titolo è giunto un meraviglioso cortocircuito, il Papa argentino accostato all’abruzzese testardo padre di tante battaglia per i diritti civili nel nostro paese, cortocircuito che ha scosso una parte dei cattolici, ma è proprio l’accostamento quasi esotico ad essere provocatorio e sembra suggerirci che l’unica modalità per riportare al centro del dibattito politico le carceri è lo scandalo.
Lo scandalo stesso che vive lontano dalle nostre coscienze nell’immaginare celle strapiene, violenze e ferite che si sovrappongono ad antiche cicatrici non curate, che prima o poi torneranno a sanguinare, uomini lasciati come terreni riarsi dal sole, uomini lasciati soli ad aspettare una chiave che riapra non solo una cella, ma una speranza di essere perdonati e tornare ad essere umani.
*L’autore di questo articolo è un giornalista di Radio Radicale
Foto Ansa
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