Giannino: Merkel o non Merkel, sarà dura tenere a bada lo spread

Di Oscar Giannino
28 Giugno 2012
Grandi attese per il Consiglio europeo, ma staremo a vedere se tutto non finirà con grandi annunci. Ma il futuro dell'Italia dipende da tutto ciò che né destra, né sinistra, né Monti hanno fatto finora

Il documento dei quattro angeli dell’Ue in vista del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, ammettiamolo, non è un granché. Quattro paginette di impegni abbastanza generici rinviati al futuro su quattro punti, l’unione bancaria, fiscale, economica e politica. Van Rompuy, Barroso, Juncker e Draghi, nelle vesti di presidenti del Consiglio europeo, della Commissione, dell’Eurogruppo e della Bce, nella bozza di agenda non potevano andare oltre. Perché in questi due anni e mezzo di crisi continentale la verità è che l’edificio europeo ha visto un’enorme perdita di impulso e rilievo delle istituzioni comuni, per lasciare sempre più spazio al confronto diretto tra governi dei paesi membri.

C’è una sola eccezione a questa regola generale, rappresentata dalla Bce. Dunque se ancora una volta la conclusione dell’eurovertice sarà ispirata alla mera strategia del “comprare tempo”, allora sarà sulle spalle della Banca centrale che ricadrà il compito e l’inventiva di continuare ulteriormente nelle strategie monetarie non ortodosse che sin qui, dall’inizio del 2012, ci hanno intanto consentito di non andare gambe all’aria. Senza le due aste di liquidità straordinarie Ltro, a tassi d’interesse negativi triennali e a bassa qualità dei collaterali, a cui ha fatto seguito da pochi giorni un ulteriore abbassamento di qualità dei collaterali accettati da Francoforte, i sistemi bancari nazionali non avrebbero avuto liquidità da riorientare all’acquisto dei titoli pubblici emessi, come è avvenuto in Italia al ritmo di 30 miliardi al mese.

Quindi teniamo fermo intanto questo post-it sul muro. Mario Draghi potrebbe decidere una terza Ltro e inoltrarsi ancora sulla strada dell’offerta di liquidità illimitata alle banche. Difficile che possa da solo prendere a comprare titoli sul mercato secondario se non per modesti quantitativi in casi di assoluta emergenza – come avvenne nel 2011 –, perché all’intervento diretto della Bce in campo di debiti sovrani si oppongono la Bundesbank e le banche centrali di Olanda, Finlandia e Austria, che hanno già votato contro o si sono astenute la scorsa settimana all’ulteriore abbassamento dei collaterali.

Mi aspetto il 29 giugno un passo avanti almeno formale verso date precise che consentano di disegnare l’architettura di un primo abbozzo di unione bancaria, in maniera da precisare quante decine di istituti di rilievo europeo dovrebbero essere sottoposti a una comune vigilanza Bce, e dunque ad analoghi criteri d’intervento-salvataggio in caso di crisi, e da identificare le modalità concrete della garanzia europea che si aggiunge a quella, diversa da paese a paese, sui depositi.

Mi aspetto un comune intento verso l’identificazione di un segretariato comune per l’analisi ex ante delle politiche di bilancio e fiscali, un primo passo avanti verso un ministero delle Finanze europeo, che la Germania considera essenziale per dare forza più cogente al fiscal compact. Magari accompagnato da trattative riservate sulla necessità di concedere agli eurodeboli diluizioni temporali delle condizioni di rientro dal deficit di fatto già accordate alla Spagna di Mariano Rajoy e non ancora alla Grecia (non partecipano  al vertice né il premier greco né il ministro delle Finanze di Atene, però, sostituiti da un capo dello Stato che non impegna la politica di bilancio nazionale).

Di nuovo oltre quota 500?
Dopodiché, grandi annunci sui 130 miliardi di piano per la crescita a venire, tutte risorse già presenti o al massimo rafforzate con un aumento di capitale della Bei al fine di alzarne la leva finanziaria d’intervento. Ma nessun passo avanti sulla via di una delle tante proposte avanzate per la federalizzazione di una parte del debito sovrano di ciascun euromembro. La smentita energica riservata domenica 24 giugno dalla Merkel al suo potente e autorevole ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, che si era responsabilmente spinto ad ammettere che sarebbe il caso di chiedere presto o tardi – aveva parlato di “anni”, mica di mesi – con un referendum ai tedeschi di superare il vincolo costituzionale alla federalizzazione dei debiti sovrani degli euromembri, la dice lunga su come la cancelliera non intenda su questo deflettere da un impegno esplicito e vincolante sin qui assunto e mantenuto con i contribuenti germanici, nonché con il Bundestag e la Corte di Karlsruhe.

Può essere naturalmente che mi sbagli, a esser così minimalista nelle previsioni sull’eurovertice. Sarebbe una grande notizia se gli euroleader ci sorpendessero. Ma i due anni e mezzo alle nostre spalle non autorizzano all’ottimismo né noi né soprattutto i mercati, che è ciò che più conta. E la domanda a quel punto diventa: nel caso in cui la cancelliera tedesca sia convinta che in realtà si possa comprare tempo fino alle elezioni in Germania nella prossima primavera, che cosa possiamo ragionevolmente opinare che capiterà nel frattempo all’Italia?

Impensabili le urne a ottobre
Personalmente non ho molti dubbi. Purtroppo banche e fondi continuerebbero a picchiare duro sui mercati. Poiché di qui ai prossimi dodici mesi abbiamo quasi 400 miliardi di euro di titoli pubblici da piazzare, e con un’ingente quota di quelli a duration più elevata, è possibilissimo che in assenza di paracadute lo spread italiano si situi oltre quota 500 punti (ci siamo già andati pericolosamente vicini nelle ultime settimane, con strappi oltre quota 470). Al di là di fiammate in una o nell’altra giornata delle più torbide sul mercato, se per caso dovessimo stabilizzarci oltre quota 500 per una settimana, allora temo proprio che scatterebbe l’allarme rosso. È scontato che i giornali e i media italiani si riempirebbero di infiammate dichiarazioni sul fatto che non siamo la Grecia né la Spagna con la sua bolla immobiliare da riallineare e le sue Cajas scassate da rappezzare. Ma a quel punto non sarebbe affatto infondato il timore dei mercati sulla solvibilità di medio-lungo periodo di un paese sottoposto a così alti rendimenti sulla sua montagna di titoli pubblici, quando già ha una pressione fiscale altissima e una spesa pubblica che neanche Monti riesce a scalfire se non per robetta (la spending review inaugurata per non far scattare l’aumento dell’Iva viene presentata come una gran cosa, invece è assai poca cosa, poco più dell’1 per cento di taglio della spesa pubblica su base annuale).

Non so immaginare come la politica italiana, in una situazione di quel genere, possa progettare di correre alle urne a ottobre. Capisco che Berlusconi immagini di guadagnare dal benservito a Monti – s’illude sulle percentuali, se il dividendo c’è –, ma credere che in quelle condizioni si lucri consenso tornando a dire “viva la lira” è un azzardo temerario. Della sinistra, capisco che chi la vuole “Vasto più Saviano” ragiona a sua volta secondo il tanto peggio tanto meglio. Ma in realtà entrambe le contrapposte ambizioni elettorali dovrebbero fare i conti con un paese ancora più stretto da vincoli straordinari, con ancora meno Pil, più disoccupati e più chiusure e fughe all’estero d’impresa.

L’Esm da solo non ha residua capienza per un sostegno “decisivo” alla sostenibilità di un debito pubblico tanto ingente come quello dell’Italia, paese a crescita negativa e ad alta imposizione fiscale. Di conseguenza, poiché siamo il 19 per cento dell’euroarea, il meccanismo d’emergenza contrattato tra Bruxelles, Berlino e Fondo monetario potrebbe essere rappresentato da un redemption fund, la versione “sovrana” dei sinking fund riservati a debitori privati considerati alle soglie dell’insolvenza: al fine di riscattare ed estinguere obbligazioni o altri titoli, si “costringe” il potenziale insolvente a destinarli a un fondo al quale deve corrispondere annualmente gli interessi sulle obbligazioni conferite, nonché una quota aggiuntiva di pagamento a estinzione pluriennale del debito conferito al fondo. È esattamente la soluzione che i Cinque Saggi tedeschi hanno indicato a tutti i paesi eurodeboli, proponendo loro di conferire l’intera quota di debito eccedente il 60 per cento del Pil previsto come obiettivo dal fiscal compact. Una proposta collettiva scartata in Europa che potrebbe tradursi in una specie di proposta “obbligata” per l’Italia, se non dovesse reggere sui mercati nei prossimi mesi.

La follia ammazzacrescita
Purtroppo, un redemption fund di queste proporzioni bloccherebbe per un orizzonte temporale fino a 20 anni una quota annuale di Pil italiano pari quasi al 10 per cento, contemplando che una consimile quota di gettito fiscale venisse direttamente girata al fondo. Una follia! Una follia che ingabbierebbe ogni possibilità di far crescere il paese.

In altre parole: euro o non euro, dal mio punto di vista purtroppo l’Italia paga l’incapacità della sua politica di capire che l’elevato debito pubblico si abbatte con massicce dismissioni di patrimonio statale, mentre sul conto economico spesa e tasse devono scendere in equilibrio di bilancio di 7-8 punti di Pil in un triennio. Solo con un abbattimento del debito non recessivo, e con tagli alla spesa e alle entrate pubbliche, si rimette in piedi il paese. Era quel che mi aspettavo dal governo Monti. Purtroppo non è avvenuto. E ora son tutti uniti a dire che la colpa è dei tedeschi, quando invece la colpa ce l’hanno loro, destra, sinistra e tecnici, sia pure in quote non eguali ma proporzionate a quanto hanno governato a testa in vent’anni.

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