
Lettere dalla fine del mondo
«Gesù è risorto». L’annuncio che attendono tutti, dai miei malati ai politici d’Europa
Pubblichiamo la rubrica di padre Aldo Trento contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Giorni fa, dialogando con alcuni pazienti terminali di ciò che li aspetta, uno mi ha detto: «Padre, Gesù è risorto per cui anche a noi tocca questa grazia. Aiutaci a prepararci bene per arrivare pronti alla meta». Che bello! È vero che esiste il male, il dolore, il peccato, l’odio. Però Gesù è risorto e anche noi risorgeremo con Lui. Senza questa certezza la vita è una maledizione. Se Gesù non fosse risorto, l’esistenza sarebbe una grande fregatura e non solo la mia ma ancor di più quella dei miei figli, che con tanta fede e pazienza, si preparano al grande passo.
Tutti i giorni lotto con la mia malattia, con molta serenità perché sono certo che il cammino tracciatomi dal Padre è lo stesso di quello di Gesù. Quando mi sveglio, il primo pensiero è sempre per Gesù, e ciò mi rende più lieve l’appoggiare i piedi sul pavimento per alzarmi dal letto. Non sono più il terremoto di molti anni fa, ma un uomo che, nella fatica quotidiana, ha sempre più chiara la certezza della resurrezione e la gioia di trasmetterla a quanti sono qui per prepararsi a incontrare lo sposo, come ci ricorda il Vangelo: «State preparati perché nel giorno che meno pensate viene il Figlio dell’Uomo». E vi garantisco che è davvero bello vivere con questa certezza, con questa tensione. Partire ogni mattina con gli occhi fissi su Gesù risorto permette di entrare nel significato ultimo della realtà in tutte le sue dimensioni, godendo di ogni dettaglio.
Questa certezza che ci permette di dire all’altro che cammina al nostro fianco “tu non morirai”. Stando sempre nell’ospedale dove i malati lottano con la morte, mi riecheggia nelle orecchie il canto che definisce ogni gesto di preghiera: «Christus vincit, Christus regnat, Christus ímperat». La certezza della vittoria di Cristo sulla morte accompagna le infermiere chiamate a consolare e lenire il dolore dei pazienti, accompagnandoli a morire.
È commovente vederle fare il cambio di guardia davanti al Santissimo Sacramento sempre esposto nella cappella. Quelle che entrano ricevono le consegne da quelle che vanno davanti a Gesù. Come potrebbe una persona, per lo più giovane, accompagnare un paziente che sta per morire senza la forza della fede? È drammatica l’agonia, perché vedi la vita che lotta contro la morte, l’anima che vuole andarsene da dov’è venuta e il corpo che non vuole cedere. Mi impressiona vedere il respiro sempre più affannoso che si affievolisce fino a spegnersi: la guerra è finita, il viso si ricompone in una bellezza che per me è segno che l’anima è in Paradiso. Non è facile accompagnare ogni giorno un paziente a morire. Per questo, nel cambio di guardia, le infermiere si affidano a Gesù, Giuseppe e Maria, con questa preghiera:
Signore, Tu hai accudito agli ammalati con amore, hai dedicato loro il tuo tempo, hai guarito i loro corpi e anche le loro anime, hai consolato i familiari nell’ora del dolore.
Signore, sono infermiere/a, e voglio attingere dal tuo esempio luce per il mio pensiero, guida per il mio agire; voglio trovare metodi efficaci per calmare il dolore degli ammalati.
Dammi pazienza per accompagnare coloro che soffrono. Dammi forza e coraggio per consolare gli ammalati incurabili. Dammi la tua grazia, per riconoscere il tuo volto in ciascuno di loro.
Signore, vorrei averti sempre vicino, soprattutto durante le notti che trascorro a lato degli ammalati. Veglia con me, Signore. Benedici me e tutti i miei ammalati, e non permettere che io mi separai mai da Te. Amen.
Come sarebbero differenti gli ospedali se i cristiani che vi lavorano avessero il coraggio di mostrare la loro fede con un gesto che li riunisca prima di iniziare la loro missione. Don Giussani ci ha educato fin da Gs a non avere paura di recitare le lodi nell’ambiente nel quale vivevamo. Siamo cristiani o anime devote?
Ho letto dell’attentato nel cuor d’Europa. Quell’Europa che ha lasciato alle spalle Gesù e ora ne paga le conseguenze. Mentre i politici ripetono parole e le nazioni si irrigidiscono sempre più nell’accogliere altri popoli e culture, noi cristiani siamo chiamati a gridare «Gesù è risorto!». L’Europa ha bisogno di tornare alle origini, a quell’uomo di cui stiamo contemplando in questa Settimana Santa la sofferenza, la morte in croce e la Resurrezione.
Questo e solo questo siamo chiamati ad annunciare: «Cristo è risorto!». È l’annuncio che ha dato origine al nostro continente. Sarà solo questo annuncio a ricreare l’Europa delle cattedrali.
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Talvolta la vita ci appare complessa nella sua dinamica, ma è solo la nostra incapacità di coglierne il suo sviluppo e ci sembra che vi siano contraddizioni laddove regna invece armonia e adeguatezza. Solitamente vi è la tendenza a vedersi come vittime senza indagare il significato degli avvenimenti. Ogni vita, ogni esistenza, ogni percorso è indubbiamente unico e irripetibile. Due sono sostanzialmente le fasi del nostro esistere. La prima fase riguarda chi ancora è impegnato nella costruzione della propria personalità e quindi è impegnato nel lavoro cosciente per fortificarla. La seconda riguarda invece coloro che si trovano ad operare ed agire nella realtà vivente con una personalità già “infusa d’anima” ed è in questa fase che si è dediti a destrutturalizzare la stessa personalità per divenire un canale sempre più puro di trasmissione di quella “Luce” che si può definire unificante, onnipervadente, legante, onnipresente, creativa, pura, magnetica, protettiva, inestinguibile, immediata, sintetica e costante. Ciò che assume valore nella prima fase appare allora un impedimento nella seconda: “l’io è l’aiuto – l’io è l’ostacolo” (la saggezza di tutte le età ingiunge: conosci te stesso). Nella prima fase del cammino “siate caldi o freddi, i tiepidi io li vomiterò dalla mia bocca”(Cristo nell’Apocalisse di Giovanni); è in questa prima fase che si impara a prendere posizioni e si deve agire in ogni modo (come terremoti!) onde evitare di ingrossare la schiera degli ignavi (“color che mai non fur vivi”). E’ un equilibrio che va coscientemente e lentamente conquistato, rimanere al centro è un pigro compromesso malsano che non rende alcun servizio all’evoluzione. Ma la crescita di un uomo va oltre, fino ad arrivare alle irrinunciabili parole del Cristo: “A chi ti percuote la guancia, porgi anche l’altra” (Luca, 6:29). Se nella prima fase una personalità debole, dopo essere stata colpita ad una guancia, porge per vigliaccheria anche l’altra, otterrà come solo ed unico risultato quello di essere colpita passivamente per la seconda volta. Quando invece la personalità si è fortificata e strutturata ha conseguentemente raggiunto la maturità per arrendersi alla luce dell’anima. Avendo pervaso l’essere, questi è in grado di leggere le linee del destino e di conformarsi ad esso – porgendo l’altra guancia – piuttosto che opporsi scioccamente a ciò che non può essere modificato (“Sia fatta la Tua volontà”). Non più debolezza, vigliaccheria o masochismo a questo punto del percorso, ma forza, coraggio, suprema assunzione di responsabilità. Mai si confonda con passiva arrendevolezza. Ed ecco allora il Cristo che dalla Galilea torna indietro a Gerusalemme per andare incontro consapevolmente al suo destino e che si fa arrestare senza opporre resistenza. Anche il malato grave che si presupponga terminale in causa della stessa malattia piuttosto che al naturale decorso temporale, a prescindere dalle tipologie di cura intraprese, dovrebbe ripercorrere analoghe tappe per intraprendere più profondamente un percorso credibile di possibile guarigione. All’inizio (prima fase anzi esposta) è necessario combattere ogni giorno e più volte al giorno la propria battaglia verso il male da cui si è affetti contrapponendosi così a quell’aggressività che ha costituito la base d’impianto della cosiddetta normopatia, micidiale condizione che relega l’essere in una dimensione di profondo e totale silenzio emozionale e che è il terreno che sollecita il progredire virale del male. Appare paradossale, ma in questa fase il malato deve assolutamente riappropriarsi di tutto il suo mondo emozionale vivendo il proprio egoismo e godendone!! (l’io è l’aiuto). L’accettazione della propria condizione, auspicabile in tantissimi altri casi, diverrebbe in questo caso sinonimo di rassegnazione, e porterebbe a morte certa, mentre se ci si aspetta ancora qualcosa dalla vita … la vita aspetta ancora un po’. Se è però importante scoprire il proprio ego, è tuttavia altrettanto importante in un momento successivo superarlo indipendentemente da qualsiasi malattia. E’ questo (inderogabilmente per tutti i viventi in coscienza) il momento supremo …. e l’io è l’ostacolo per porgere l’altra guancia e riappropriarsi di quell’amore precipitato nell’ombra, simboleggiato dalla malattia terminale, che ritorna alla luce e ammanta di sé la Vita ricomponendo il viso in bellezza.