
A Gerusalemme (e a Bagdad) si parla ancora la lingua di Gesù
Aram era, nella geografia del Vecchio Testamento, l’“Altopiano” della Siria e del Libano, in contrapposizione alla pianeggiante Terra di Canaan. E aramaico fu il nome della lingua semitica che iniziò ad affermarsi nella zona all’inizio del primo millennio avanti Cristo. È un abusato luogo comune quello che un dialetto diventa lingua «quando è portato sulle spade e le baionette di un esercito vincitore». La storia dell’aramaico dimostra invece quanto spesso accada il contrario: via via conquistati da assiri, babilonesi e persiani, ed anche esposti alla potente influenza culturale di ebrei e fenici, gli aramei imposero nondimeno la loro lingua a tutti, riducendo idiomi in teoria più potenti a mere lingue religiose e di cultura. In particolare, fu come lingua ufficiale dell’Impero Persiano che l’aramaico vide introdurre il suo alfabeto in India, dando il modello da cui derivano tutte le scritture indiane oggi esistenti. E nella Palestina dove Gesù predicava in aramaico, questa lingua aveva a tal punto soppiantato l’ebraico nell’uso di tutti i giorni, che quando il Cristo dalla Croce invocò il Padre nella lingua dell’Antico Testamento, chi c’era non lo capì: «Verso le tre Gesù gridò molto forte: “Elì, Elì, lamà sabactàni”, che significa “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Alcuni presenti udirono e dissero: “Chiama il profeta Elia!”» (Matteo, 27, 46-47).
Qualcuno pensa che fu scritta in aramaico una prima versione dei testi del Vangelo, a noi arrivati tutti in greco. Ma la cosa non è sicura. Comunque, in aramaico si sviluppò una ricca letteratura cristiana, che segna l’evoluzione verso quella nuova lingua che gli studiosi definiscono “siriaco” o, appunto, “aramaico cristiano”. Sant’Efrem il Siriaco, il vescovo soprannominato “Arpa dello Spirito Santo”, ne fu appunto un vertice stilistico. Fu presumibilmente il siriaco, più comprensibile del greco, che portò nel mondo arabo quei fermenti monoteisti da cui sarebbe nato l’islam. Dopo la conquista islamica della Siria, furono pure le traduzioni dal greco al siriaco dei classici greci ad avvicinare gli arabi alla cultura classica, favorendo quel rinascere di interesse per l’antica filosofia che attraverso le opere dell’afghano Avicenna e dello spagnolo Averroè avrebbe poi contagiato la stessa Europa. Esemplare di questo curioso percorso è il Commentario di Averroè su Aristotele, alla base della grande opera di San Tommaso d’Aquino, e che noi conosciamo attraverso una traduzione latina di un originale arabo perduto, che commentava l’opera di un filosofo greco conosciuto dall’autore solo attraverso una traduzione in siriaco. A differenza degli altri conquistatori, però, gli arabi non abbandonarono la loro lingua per il siriaco, che andò sempre più perdendo terreno. Tuttavia, tutt’oggi la lingua di Gesù non è una lingua morta. Idioma liturgico dei riti maronita, siro, caldeo, malabarico e malankarese della Chiesa cattolica, oltre che delle monofisite chiese giacobita e malankarese e delle nestoriane chiese assira e malabarica, il siriaco è tutt’ora in uso nella vita di tutti i giorni, sotto tre forme dialettali. Un dialetto siriaco occidentale sopravvive infatti in alcuni villaggi siriani e libanesi, oltre che nell’area araba di Gerusalemme; e dei suoi due dialetti orientali, uno è parlato da circa metà del milione di cristiani iracheni, e l’altro è la lingua dei mandei: 35.000 adepti, di cui 25.000 in Irak, 6000 in Iran e 4000 nella diaspora, di un’antica setta gnostica, che considera suo profeta Giovanni il Battista.
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