Genextra, quando la libertà di ricerca è un affare per gente per bene

Di Tempi
15 Giugno 2006

D’accordo, mica si possono legare complottisticamente a meri interessi economici tutti i temi eticamente sensibili che il Corriere della Sera e i suoi fratelli trattano così zapateramente. Solo, a volte non si può non constatare come il cortocircuito fra convinzioni, preveggenze, visioni e business sia parecchio probabile, perfino nelle migliori famiglie. Perciò è forse il caso di tornare sulla nascita di Genextra, piccola holding biotech che da qualche anno (dal 2003) fa ricerche farmacogenomiche sul gene p66, quello dell’invecchiamento, nel tentativo di individuare una specie di elisir dell’eterna giovinezza. L’uomo immagine della start up, nonché azionista al 4,13 per cento (tramite la fondazione a se medesimo intitolata) è quello stesso Veronesi Umberto oncologo di fama internazionale il quale va dicendo, anche sullo stesso Corriere (l’ultima volta il 9 maggio), che grazie alla genetica un giorno vivremo fino a 120 anni. Va da sé però che, parlando di queste ed altre meraviglie della scienza, il Veronesi Umberto solitamente tralasci di ricordare il proprio ruolo in Genextra. Una dimenticanza di cui soffre anche il Corriere, che invece come vedremo avrebbe ottimi motivi per ricordarsi dell’esistenza della holding. Ora, che c’azzecca l’elisir della giovinezza con l’aperturismo bioetico generalizzato che caratterizza l’area Veronesi? Probabilmente niente. Francesco Micheli, però, regista finanziario, nonché azionista al 20,66 per cento (tramite Felix) di Genextra, non ha mancato di sottolineare da più parti come «il progetto sarà molto più ampio». Mai dire mai, quindi.
Micheli, per dire, è uno che con Gianni Agnelli poteva permettersi di parlare di quadri. È un raider di quelli veri, il re delle scalate anni Novanta, famoso per varie operazioni di successo, fra cui Finarte, Omnitel, il takeover della Telecom, e.Biscom. Insomma, un finanziere coi fiocchi. E a proposito di finanza buona e giusta, forse vale la pena ricordare che l’aziendina di cui sopra, Genextra, è stata tenuta a battesimo da un certo Piergaetano Marchetti, di professione notaio. Che guardacaso è anche presidente del cda di Rcs Mediagroup, editore del Corriere. Non per niente Genextra, appena nata, per i giornali valeva già 40 milioni di euro. Cosa che permise a Micheli di aprire subito il capitale a 11 pezzi da novanta dell’economia italiana, fra i quali la Fonsai di Salvatore Ligresti, Marco Tronchetti Provera, Luca Cordero di Montezemolo, Diego Della Valle e tre banche, una delle quali è Intesa. Che insieme fanno praticamente il patto di sindacato di Rcs. Da notare che in quell’occasione, parliamo del 2003, come ha ricordato la Stampa all’inizio di giugno, aveva «messo un gettone» in Genextra anche il Pierluigi Toti, lo stesso immobiliarista che poche settimane fa ha comprato le azioni Rcs sequestrate a Stefano Ricucci. Un gettone ce lo misero, peraltro, perfino Giampaolo Angelucci, altro grande editore italiano, ed Emilio Gnutti (do you remember il quartierino?). Certo, stiamo parlando di 24 milioni di euro in tutto (pari al 49,59 per cento del capitale). 2 milioni a testa. Spiccioli, si dirà. Ed è vero, per investitori del calibro di cui sopra, questi sono spiccioli. O forse dovremmo considerarli come una specie di puntatina sul cavallo vincente, visto che, come ha detto Micheli a Repubblica nell’ottobre 2005, «è il biotech il settore del futuro»?

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