
I primi passi, i blocchi e gli ostacoli della riforma dell’università. Cosa fare ora
Negli anni scorsi l’Università è stata terreno di scontro ideologico, ma questo è un lusso che non possiamo più permetterci e che penalizza il futuro del nostro Paese già molto compromesso. La riforma dell’università, deve essere valutata nella concretezza della sua applicazione, ma perché questo sia possibile è urgente rimettere in moto il reclutamento e giudicare serenamente tra qualche anno se le regole introdotte dalla 240 funzionano o no, soprattutto per quanto riguarda la tenure track. Senza turn-over, senza il ricambio di energie nuove la riforma perde il suo principale propellente e resta al palo. E su questa linea si è del resto schierata pochi giorni fa la Conferenza dei Rettori.
Del resto, i decreti attuativi della riforma sono andati in porto quasi tutti ed è giunto il momento di metterli alla prova. Il passo successivo sarà dedicato a semplificare e snellire, nell’ottica dell’autonomia responsabile. A breve, avremo inoltre a disposizione i risultati della Valutazione della qualità della ricerca 2004 – 2010 utili per rafforzare i meccanismi premiali, insistendo di più sulla valutazione dei risultati che sulle regole a monte.
Una sentenza della Corte Costituzionale, pochi giorni fa, ha purtroppo giudicato illegittima una norma contenuta nella legge di riforma dell’Università. La norma aveva escluso per i professori universitari la possibilità di richiedere la proroga in servizio per un biennio, al raggiungimento dell’età pensionabile. Tale sentenza crea un ostacolo al ricambio generazionale nelle nostre università: del resto fino a pochi anni fa i nostri professori ordinari potevano andare in pensione a 77 anni, e oggi possono farlo a 70, comunque ben dopo i loro colleghi francesi o tedeschi.
Ulteriori ostacoli al ricambio generazionale sono poi determinati dalla nostra situazione finanziaria. La legge 240, nata in un momento di gravissima crisi economica, aveva già comportato, nel biennio 2010-2011, tagli dolorosi, quanto inevitabili, ai fondi per l’Università. Erano tagli, vorrei però ricordarlo, che corrispondevano in buona parte proprio al minor costo dei docenti ultrasettantenni in uscita dal sistema, tagli in ogni caso già previsti dal Governo Prodi.
Nel 2012, grazie agli sforzi fatti con la Finanziaria 2011, la situazione si era stabilizzata su livelli accettabili, livelli dai quali si sperava di poter ripartire con una politica di investimenti. Il perdurare – se non l’acuirsi – della crisi ha invece portato il Governo Monti, per il 2013, ad infliggere un ulteriore taglio di 300 milioni, bloccando di fatto il turnover, riportandolo così al solo 20% dei pensionamenti. E’ chiaro che in questo modo il sistema si avvia verso la paralisi completa.
Bisogna dunque invertire la rotta. Nel 2010, nonostante tutto, eravamo riusciti a trovare i fondi necessari per il primo triennio del piano straordinario associati, che oggi è un dovere del governo rifinanziare. Non basta. E’ urgente eliminare subito il blocco imposto dalla spending review nel 2012; abolire il biennio di proroga per tutti gli statali, in modo da evitare conflitti generazionali e contenziosi caso per caso; finanziare un piano di reclutamento per ricercatori, soprattutto quelli di tipo “b”, cioè quelli potenzialmente destinati alla promozione a professore di ruolo. Servono anche nuovi fondi per il diritto allo studio, tuttora in attesa di norme che creino vera mobilità sociale premiando il merito. Del resto gli indicatori OCSE ci mostrano che proprio in ambito universitario i nostri investimenti sono insufficienti e non reggono la competizione.
Occorre monitorare i concreti effetti delle Riforme approvate creando le condizioni finanziarie per renderle veramente incisive, ma in una stagione in cui le risorse scarseggiano è un dovere creare i presupposti, anche con qualche piccola rinuncia, per un concreto ingresso dei giovani nell’università.
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4 commenti
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In Italia non é sbagliato solo il modo di dare i fondi all’universitá. É sbagliato l’importo che bisogna pagare per poter usufruirne. In Italia le rette sono sui 1000-2000 Euro in media, in stati come UK sono nell’ordine di 5000-10000 Euro, negli USA possono arrivare a 30000-50000 Euro.
L’universitá va pagata interamente, non parzialmente.
In tutti gli stati menzionati gli studenti possono facilmente accedere ai prestiti d’onore con tassi agevolati e comunque solitamente dopo la highschool lavorano (idraulici, controllori dei treni, custody di biblioteche, etc…) per un anno per racimolare qualcosa.
Peró non é solo questo che é sbagliato.
In Italia é assurda l’immagine che i professori universitari hanno di sé stessi.
Anzitutto in UK e USA non esiste che tra professori e studenti ci si dia del lei o si usi la formalitá: lí uno studente dá tranquillamente del tu al docente e lo chiama per nome. Non esiste che un professore tratti male uno studente o la metta sul personale.
Poi gli esami orali non esistono.
Al massimo esiste che lo studente debba dare una presentazione di 10-15 minuti davanti ai suoi compagni di corso e docenti sul lavoro svolto fino a quel momento o su un argomento particolare, dopo la quale ci possono essere delle domande a cui rispondere.
I voti poi sono molto “bassi”, non esiste prendere il massimo possibile a un esame (30/30 o 100/100), a meno di non essere dei premi Nobel (prendere 70/100 in UK é un gran voto, 50/100 é la soglia di passaggio dell’esame, 60/100 é un voto normale). Peró non esiste che se tu studi non passi l’esame. Tanto é vero che tu non puoi rifiutare i voti che ti danno a meno che tu non abbia passato l’esame. In tal caso l’esame devi rifarlo previo pagamento di una sovrattassa e se lo passi comunque sia andata prendi come voto il minimo possibile per passare (il 18 da noi).
Occorre dare fiducia al sistema italiano, ma occorre anche ordinare dei cambiamenti radicali nella mentalitá dei professori (atteggiamento verso studenti ed esami) e studenti (costo delle rette ed eventuali precauzioni).
più fondazioni universitarie e più corsi di specializzazione post-diploma. assegnare per legge punteggio massimo al ricercatore che brevetta, non a quello che pubblica.