
Fuori la canotta del 1982 e la birra del 2006. Sono cominciati i Mondiali: quindi forza Italia, compagni, amici e bastardi
Ah, il Brasile. I miei amici di Sky lo chiamano il Mondiale dei Mondiali. Mi viene da ridere. Cosa vorreste dire, compagni satellitari, che è più importante degli altri perché si gioca in Brasile o pais do futebol? Vi viene da ridere anche a voi, però comprendo e tengo pure io una famiglia numerosa. C’è da vendere un prodotto e se avessi da proporre un pacchetto di 64 partite mi adeguerei di corsa.
Da cosa si capisce che sta arrivando il Mondiale? In tv scorrono le immagini del passato, dal gol di Tardelli a quello di Grosso. Una pubblicità racconta di un tale che ha abbracciato suo padre al gol di Tardelli e suo figlio a quello di Grosso. In mezzo, da Madrid 1982 (santo beato Paolo Rossi) a Berlino 2006 (santo beato Fabio Grosso), tra una sconfitta e l’altra, invece, ha mandato a cagare sua madre e menato sua moglie. Un altro segno sono i libri a sfondo calcistico. Di ogni segno, di ogni argomento. Spesso pertinente, spesso no. Meglio la seconda.
Comunque quando leggerete queste poche, sporche, ciniche, bare e inutili righe, il Mondiale sarà appena cominciato. Forse. In Brasile stanno ancora finendo di saldare pezzi di ferro e di piantare chiodi, i sindacati usano i Mondiali per strappare concessioni al governo, a San Paolo la metropolitana è in tilt e la polizia spara i lacrimogeni. C’è un ritardo pazzesco. Certo, noi è meglio che stiamo zitti. Siamo specialisti nell’arrivare con l’acqua alla gola, poi però, in quel mese siamo perfetti. Mi ricordo ancora, giovinastri, che nel 1990 passavano delle gnoccolone in tribuna con vassoi straboccanti di scaglie di parmigiano o con piccoli frigoriferi da cui estraevano cornetti cuore di panna che ti veniva in mente di mollare l’inutile partita e chiedere all’hostess topesca di fare uno spot.
Sarà tutto meraviglioso anche qui, una volta cominciato? Mah. Il problema è che quando si accetta di organizzare una manifestazione come Mondiale o Olimpiade, ritardi e sforamenti del budget li devi mettere in conto. Quando il Brasile ha avuto i Mondiali il real (posso dire che il cruzeiro mi intrigava di più) scorreva quasi a fiumi, adesso invece è missing in action. Non c’è più uno sgheo. La vigilia di Mondiale è stata tutta uno sciopero, una dimostrazione, un modo per ottenere un aumento o fare casino contro il governo della senhora Dilma che in autunno avrà una verifica elettorale. Mentre mi leggete la palla ha cominciato a rotolare e probabilmente tutto si sarà risolto. O forse no. Piccola guida per non farvi cogliere impreparati.
Il (falso) mito del Brasile. Quando dico che vado in Brasile le reazioni sono due: gli uomini tirano fuori la lingua alla Fantozzi, citano Pelè e i tanga di Copacabana; le donne cominciano a spappolarmi con il turismo, il mare, i misteri di Salvador de Bahia e la chirurgia estetica. Nessuno comprende la mia riluttanza a coinvolgermi nell’entusiasmo che il Brasile suscita universalmente. Il Brasile è grande e diversissimo anche nel carattere della gente che lo abita. A me, per certi versi, ricorda un po’ la Russia, solo più simpatica, più toda joia e toda beleza, però con lo stesso atteggiamento nei confronti del resto del mondo: un misto di superiorità diffusa e di sospetto latente. E non è neanche vero che qui giochino a pallone a ogni angolo di strada. Finora ho visto solo una biciclettata e gente che va in skate.
Ad esempio, a Manaus, in mezzo alla Foresta amazzonica, non c’è una squadra di futebol degna di questo nome; però hanno costruito uno stadio dove dopo il Mondiale si terranno i campionati dei piranha (c’è un ospedale apposta che cura chi si è “incontrato” con i simpatici pescetti) e delle pantegane che girano in mezzo alla strada tranquille. Una cosa però è positiva. Il carro del vincitore qui non è mai affollato. Al limite c’è un assalto nell’immediato del successo, ma se l’allenatore sta lì, dopo, la discesa è altrettanto immediata. Insomma, non cambiano la loro idea di calcio solo perché hanno vinto.
Todos a Capalbio. Chi c’era nel 1990, notti magiche inseguendo un gol, sotto il cielo di un’estate italiana (ma ai rigori vinciamo solo una volta su cinque), ricorderà quel refolo di snobismo sinistroide contro il Mondiale dei coatti (cioè di tutti quelli che non erano loro), contro le serate a birra e pizza, contro le sortite notturne in canotta unta e bandiera slabbrata, contro la vita pubblica (e anche privata) invasa da gol e cross, assist e contropiedi. Nacque il grido intellettuale “tutti a Capalbio” che divenne, da allora, il luogo mitico dove il pensatore, l’intellettuale de sinistra si ritira per rinserrare le fila di un élite insidiata dalle masse. Poi, girando per il mondo, abbiamo capito che ognuno ce l’aveva, la sua Capalbio, perché non tutti, e ci mancherebbe, si sentono coinvolti dal Mondiale di calcio o Olimpiade che sia. E pianificano la fuga.
Ci sono anche qua. In molti sono partiti o stanno partendo per l’estero o per una delle Capalbio locali, tipo Angra dos Reis. Sdraio, ombrellone, quintalata di libri “giusti”, nessun collegamento con radio, tv o, peggio, siti specializzati. Il Mondiale? Una faccenda da buzzurri. La mia compagna di viaggio, sull’aereo, che ho odiato subito perché ha dormito nove ore filate salvo svegliarsi con tempismo perfetto per pranzo e spuntino, alla parola Mondiale mi ha guardato schifata. E poi ti raccontano che i brasiliani non pensano ad altro.
Sesso, biliardino e rock and roll (in ritiro). Sempre ultimi arriviamo. L’arancia meccanica dell’Olanda, negli anni Settanta, si fondava sul calcio totale e sulle porte aperte alle compagne, alle mogli, a di tutto un po’, in stile olandese. Forse pure a qualche canna. Non vinsero nulla, però giocarono due finali con un calcio divertente ed estremo e, soprattutto, ci diedero dentro. Cambia qualcosa? Secondo una corrente di pensiero sì: i giocatori sono più tranquilli potendo incrociare, nella zona comune del buen retiro di Mangaratiba, il proprio figlioletto o la propria compagna con cui, dopo permesso del c.t. e soprattutto dopo una partita possibilmente vinta, copulare arzilli in modo da caricarsi. Mah. Premesso che sono sempre favorevole (alla copula) la questione è capire se veramente gioverà. Non lo sapremo mai: se Prandelli fa il miracolo diventa un genio, altrimenti avrà buttato via il Mondiale per scopiazzare gli olandesi. E, ovviamente, l’esperimento verrà bocciato. È il modo di ragionare sul calcio italiano di noi italiani, bellezza.
Tifosi della domenica. Questo lo dico a ogni grande manifestazione: siamo i peggiori tifosi del mondo. A parte qualche piccola eccezione (ne conosco di pazzi), nessuno è disposto, come fanno gli inglesi, a programmare venti giorni di trasferta per seguire la nazionale. Non esiste il turismo per tifo. Esiste solo, per chi se lo può permettere, la toccata e fuga per una partita, ma dalla semifinale in poi. «Caro, mi trovi un biglietto?». Ecco, essendo il Brasile dall’altra parte dell’Atlantico forse ci saranno meno questuanti. Però resta il fatto che dovremmo interrogarci su cosa siamo e cosa vogliamo dal calcio. Gli inglesi e gli olandesi sono partiti in massa, all’avventura. Noi siamo tifosi della domenica, comodi, senza senso della sfida. E questo è un modo di capire perché, anche in altri aspetti della vita, arranchiamo dietro agli altri.
L’Italia e le altre. Un po’ di calcio. Dopo il flop in Sudafrica, il primo step (vi autorizzo a sputarmi appena mi incontrate) è passare il primo turno. Non sarà facile visto il gironcino che, per salvare la Francia, ci hanno imbandito: Inghilterra, Costarica, Uruguay. Io dico che almeno ai quarti dobbiamo arrivare. Per storia e tradizione tra le prime otto ci dovremmo stare sempre. Poi si vedrà. È un’Italia così così, ma da quando ho visto Cristian Zaccardo e Simone Barone campioni del mondo (con tutto il rispetto per gli uomini e i professionisti), posso affermare, senza timore di essere smentito, che il Mondiale può vincerlo chiunque.
Il favorito numero 1 è il Brasile, anche se ha contro la statistica: il c.t. vincente, in questo caso Felipão Scolari, non riesce mai nel bis. Ma le statistiche sono fatte per essere cambiate. C’è la solita Spagna, c’è la Germania che tra le prime quattro arriva quasi sempre, c’è l’Argentina che, però, mi sembra forte davanti ma non eccezionale dietro. Poi c’è l’incognita, la sorpresa che rende il calcio affascinante. Si attende un’africana in semifinale. Si attende dal Camerun del 1990 che ci andò vicinissimo.
Un Mondiale per uomini duri. Mai come quest’anno i giocatori sono arrivati stanchi, acciaccati, malaticci al Mondiale. Secondo Sepp Blatter (vedi punto successivo) si gioca troppo, specialmente in Europa, e la stagione è dispendiosa. Già sentito, è un serpente che si morde la coda. Si gioca troppo, si gioca a tutte le ore, perché così viaggiano i soldi di tv e sponsor. Giochi di meno, guadagni di meno. Tutto il resto è un cicaleccio inutile. Comunque, a parte quelli che sono rimasti a casa – ultimi a cadere Ribery e Reus – quelli arrivati qui non stanno benissimo. Da Messi e i suoi conati a Suarez e il suo ginocchio in via di guarigione, ogni squadra ha i suoi problemi. Poi ci saranno i cambi di fuso e di clima, dalla Foresta amazzonica al Rio Grande do Sul, dove certe sere ti devi mettere il piumino. Tutte le squadre si attrezzano. Vincerà chi si reggerà in piedi meglio e più a lungo.
L’inamovibile Sepp Blatter. Il colonnello di Visp, 78 anni, governa il calcio mondiale dal 1978. È passato attraverso scandali, inchieste, accuse, scivolate (quando fece l’imitazione di Cristiano Ronaldo in tv, inimicandosi il Real Madrid). Come diceva mio nonno: se uno non si muove da dove sta vuol dire che ci sta bene e soprattutto che a qualcuno conviene che stia lì. La Fifa, come il Cio, il comitato olimpico internazionale, muove cifre e interessi mostruosi e solo gli ingenui possono credere che chi siede in quegli scranni dorati lo faccia solo per amore dello sport. C’entrano come sempre, soldi e potere. Basta vedere dove i dignitari Fifa alloggiano, come si spostano, la vita che fanno. Sepp Blatter non vuole mollare, ma forse sono quelli che vivono alla sua ombra che non vogliono novità, non vogliono Michel Platini che vuole cambiare molte cose.
Nel bene e nel male, Michel è pericoloso. E i cambiamenti, nel calcio, non sono mai ben visti. Invece Blatter è il garante del movimento lento, dell’avanti adagio. La sua fortuna e la fortuna di tutti quelli come lui è che, finché il pallone rotola, il popolo segue quello. E si disinteressa della politica. Esattamente come sta succedendo ora che il Mondale è cominciato. Quindi, fuori la canotta del 1982 e la birra del 2006, fuori la bandiera con lo stemma dei Savoia. E forza Italia, compagni, amici e bastardi. Sempre e comunque.
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