Fuori dal recinto della scuola di Stato

Di Mauro Grimoldi
16 Maggio 2020
«Le crisi dell’insegnamento sono crisi di vita», scrive Péguy. Perché la dura lezione del virus non venga diluita ai giovani come «pappa e bambagia», l’educazione deve essere opera comune di tutti. Già oggi, non quando riapriranno le aule
Preparazione di un'aula di scuola con distanziamento sociale in vista della riapertura dopo l'emergenza coronavirus

Articolo tratto dal numero di maggio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Tutti noi, uomini qualsiasi, siamo stati convocati per mano del virus a un’ardua lezione, alla scuola di un paragone con il Destino, come nella lotta tra Giacobbe e l’angelo, nell’unico spazio in cui il passato (memoria) e il futuro (l’attesa) sono reali: il presente, e ancora di più l’istante. È un insegnamento duro, difficile, a cui molti sono giunti impreparati, ma è l’unico possibile. 

È una scuola che non si può e non si deve disertare. Sulle pareti delle case, sui muri delle città, sull’asfalto delle strade, che sono le aule scolastiche e le università di oggi, dovremmo scrivere queste parole di Charles Péguy: 

«Le crisi dell’insegnamento non sono crisi dell’insegnamento, esse sono crisi di vita. Quando una società non può insegnare, non è che essa manchi accidentalmente di uno strumento o di un’arte. Quando una società non può insegnare è che questa società non può insegnare a se stessa. È che essa ha vergogna, è che essa ha paura di insegnare a se stessa, per ogni umanità insegnare in fondo è insegnarsi. Una società che non insegna è una società che non si ama, che non si stima. E tale è precisamente il caso della società moderna» (Educazione e demagogia).

Mentre scrivo ho in mente le parole sul sistema scolastico di Ernesto Galli Della Loggia consegnate a un suo articolo pubblicato sul Corriere della Sera, in queste settimane di scuole chiuse e di promozione per tutti: 

«Ma come? Sul paese si è abbattuta una vera e propria tragedia, i morti si contano a migliaia, a milioni le persone che hanno perso il lavoro o sono economicamente con l’acqua alla gola, la nostra economia rischia di rimanere in ginocchio, le finanze pubbliche neanche a parlarne, e che messaggio viene trasmesso ai giovani italiani? “Facciamo come se nulla fosse e liberi tutti!”». 

La sua proposta è di cominciare il prossimo anno in anticipo, procedere, diciamo entro novembre, a scrutinare i ragazzi dopo aver recuperato il trimestre non svolto nel presente anno scolastico e poi iniziare quello nuovo. 

«I tempi sono cambiati, stanno drammaticamente cambiando. (…) Le autorità scolastiche avrebbero potuto capirlo tra le prime e dare l’esempio. Capire che nelle aule non avrebbe più potuto esserci posto per la bonarietà vacua e indulgente, per il demo-paternalismo attuali. Che con i tempi che si annunciano c’è bisogno di qualcosa di ben diverso: soprattutto di una nuova serietà». 

C’è molta ragione in quel che scrive Galli Della Loggia, specialmente quando dice che le decisioni ministeriali finiscono per trasformare in farsa una catastrofe: qualche settimana di vacanza (specialmente per i ragazzi, e pare siano tanti, che stanno facendo poco o nulla, per carenza di strumentazione e per le rigidità e le lentezze con cui si muove l’obeso pachiderma dell’amministrazione statale), un biglietto di ingresso gratuito o quasi per tutti, esami annullati o ridotti. Insomma, per usare una sua espressione, «pappa e bambagia». 

Niente di nuovo, o molto poco, viene da osservare. Ma la serietà che egli invoca, i sacrifici sacrosanti che auspica consisterebbero nel riconsegnare a settembre questi giovani vacanzieri a un sistema diventato improvvisamente serio e rigoroso dispensatore di cultura? Potrebbe, in altre parole, crescere la pianta della serietà sul terreno arido della scuola che lui stesso relega in un territorio estraneo al dramma, lontano milioni di chilometri dalla realtà dura di questo tempo? 

Ora et labora

La scuola che riaprirà quando riaprirà non sarà scuola se nascerà figlia di un buco nero, di una latitanza nei confronti di quanto sta accadendo oggi. La scuola può essere scuola domani se lo è oggi. Ci sono decine, forse centinaia, di esperienze in cui insegnanti, padri, madri, nonni, giovani, ragazzi e bambini stanno facendola ora la loro scuola di vita; con i computer o stando insieme a tavola, di mattina, di pomeriggio e di sera, a volte con fatica e sacrificio, con il mal di testa e l’insonnia di chi mal sopporta di stare chiuso. Quando gli ostacoli sono tanti l’energia affettiva è capace di tendersi di più in presenza di una proposta, di un accento di vita che risplenda di un barlume di verità e di bellezza, un frammento di senso, uno scoglio di speranza nel mare in tempesta di questi tempi. 

«Ora et labora», diceva san Benedetto, proponendo un binomio inconcepibile e scandaloso per la cultura antica (come nei suoi rigurgiti contemporanei superficiali e servili): la più alta delle espressioni umane, la preghiera, accostata alla più servile e brutale delle attività, quella appunto riservata, se possibile, agli schiavi, il lavoro manuale, l’opera sofferta e sudata. 

Un accostamento che, nella nostra esperienza e in questo tempo particolarmente, osa rasentare una coincidenza. Senza preghiera, urgenza ed esperienza di significato, non c’è lavoro e l’opera è essa stessa preghiera.

Ho l’impressione che gli esempi di questo movimento, fatto di studio appassionato e faticoso, rigoroso e critico, siano molto più numerosi di quello che appare, così come ho la certezza, confortata dall’esperienza, che i giovani sono molto meglio di come vengono dipinti e trattati, dalla retorica ministeriale (oggi sentimentale e paternalista, è vero) o dalle analisi degli intellettuali. In ogni caso, pochi o tanti che siano questi esempi, è da qui che si deve e si può proseguire a fare la scuola, anche quando si riapriranno le porte degli edifici oggi chiusi. 

Scriveva Péguy che «il sofisma del monopolio», in materia di educazione, «consiste in questo: non potendo tutti educare i ragazzi, un certo numero di cittadini si è incaricato di impartire l’insegnamento».

È il monopolio che soffoca tutto

Quando l’educazione non è opera comune di tutti, ciascuno facendo la sua parte e senza confusione di ruoli, come in questo difficile momento sta accadendo in pochi o tanti luoghi, non è né seria né persuasiva. Lasciata allo Stato, agli psicologi, ai sociologi, ai personaggi televisivi, agli intellettuali, agli scrittori di successo, agli esperti di pedagogia o alla corporazione sindacale, produce lo sfascio che Della Loggia vorrebbe correggere; è il recinto di quello che Péguy chiama monopolio a soffocare tutto. Perché questa “educazione popolare” possa essere favorita sarà necessario, al contrario di quel che si sente dire da molti, porre fine, appunto, alla religione dello statalismo. 

Sono cinquant’anni e più che qualcuno combatte per dire che ci vuole libertà, nelle scuole e delle scuole. La buona notizia è che, anche in un sistema oppressivo come il nostro, l’educazione vive ancora, «fervet opus», come scriveva Virgilio. L’altra notizia, se buona o cattiva lo lascio giudicare ad altri, è che la battaglia non è finita, né la coscienza del sacrificio che essa impone. 

Foto Ansa

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