
Fu vera gloria?
In un’intervista a Tempi dell’aprile del ’98 Paolo Mieli disse che: «Mani Pulite non ha curato il virus del trasformismo perché, in realtà, in una maniera drastica, rivoluzionaria, giacobina, ha riproposto lo stesso schema: i buoni contro i cattivi. I buoni sono la mia parte, i cattivi gli altri. Ed è uno schema interpretativo della storia d’Italia con cui si fa la politica. Uno schema pessimo. In realtà ci sono persone per bene e mascalzoni in tutti gli schieramenti politici. I buoni, gli onesti, stanno dappertutto, l’importante è trovare un sistema che sanzioni». Se non si trova, concludeva Mieli, «le cose non cambieranno per il meglio». Recentemente, nella sua rubrica di risposta ai lettori del Corriere, il direttore editoriale della Rizzoli è ritornato sulla questione: «È un fatto però che i magistrati protagonisti della stagione di Mani Pulite e i politici che se ne fecero interpreti non seppero indicare in quel periodo eccezionale della nostra storia obiettivi realistici. Produssero inoltre un eccesso di vituperio nei confronti dell’età precedente. Non fecero mai sapere in quale giorno si sarebbe tornati alla normalità. Dettero anzi l’impressione di considerare quella del ‘93 la “normalità” e che la meta fosse la trasformazione dell’Italia in un regno terreno della virtù». Michele Brambilla, così come Cimini, era nel “pool” dei giornalisti che passava le proprie giornate alla Procura di Milano. Nel ’93 lavorava al Corriere, poi è stato vicedirettore di Sette, oggi è direttore de La Provincia.
Mani Pulite fu, dunque, il tentativo di costruire il Paradiso Terrestre per via giudiziaria? Sei d’accordo con questa lettura? O ci furono altre motivazioni?
Non so se ci furono altre motivazioni. Posso solo dire che condivido pienamente l’analisi di Paolo Mieli che, tra l’altro, era il mio direttore quando io seguivo, per il Corriere, l’esplosione di Mani Pulite. Mi permetto di aggiungere una cosa. Non c’è dubbio che la corruzione, in quel tempo, fosse giunta a livelli scandalosi, e che un sentimento popolare di giustizia fosse in parte giustificato. Ma una delle conseguenze più nefaste del clima che seguì agli arresti in massa fu proprio quella divisione tra buoni e cattivi. Una divisione che portò gran parte degli italiani a credere che, se le cose andavano male, la colpa era solo degli “altri”, dei politici e basta. Scattò un sentimento di auto-assoluzione collettiva: la gente che andava in piazza per le fiaccolate si autodefiniva “L’Italia degli onesti”, convincendosi – o fingendo di convincersi – che l’unico peccato fosse quello di prendere una tangente, e di non avere nulla da farsi perdonare.
Cimini ci ha raccontato che Mani Pulite colpì solo una parte della classe politica italiana perché si costituì un “asse di ferro” tra alcuni editori e grandi imprenditori e la magistratura. Dunque, chi rimase fuori da questo asse ne subì le conseguenze. “Lo stesso Berlusconi – racconta Cimini – se non fosse entrato nell’agone politico, l’avrebbe scampata”. Sei d’accordo con questa ricostruzione?
Non ho elementi per dire che ci fu quell’asse di ferro di cui parla l’amico Cimini. E non ho neppure elementi per affermare che Berlusconi, se non fosse entrato in politica, l’avrebbe “scampata”. Ma che le inchieste abbiano colpito solo una parte della classe politica, e che Berlusconi fu messo sotto torchio solo quando annunciò di entrare in politica, beh, questi sono due fatti, non due opinioni.
Come lavoravate voi giornalisti del pool?
Lavorammo con grande affanno, perché le notizie ci travolgevano. Eravamo forse schiacciati da una cosa più grande di noi, e non ci fermammo a riflettere. A lungo, abbiamo contribuito – spero involontariamente – ad alimentare quella divisione tra buoni e cattivi. Purtroppo, vedo che alcuni colleghi ancora oggi continuano a interpretare quei fatti come uno scontro tra il Male assoluto e il Bene assoluto, senza sforzarsi di approfondire.
Pensi sia necessaria una commissione parlamentare?
Non lo so. Oggi i politici sono ancora troppo coinvolti in quelle vicende, e poi le commissioni parlamentari non hanno mai chiarito nulla. Mi accontenterei che quei fatti fossero riletti con serenità dagli storici.
Il Foglio ha intervistato Stanton Burnett, politologo americano autore di “Ghigliottina italiana”, saggio su Mani Pulite non ancora pubblicato in Italia. Nell’intervista Burnett attacca pesantemente Magistratura Democratica (Md) e dice di ricordare quando Md nei suoi ritrovi (due decenni prima di Tangentopoli) aveva dichiarato di «voler usare la magistratura per portare una rivoluzione in Italia». La ricostruzione di Burnett (uomo di sinistra) tende a vedere Tangentopoli come sfocio di pensieri e azioni di quella parte della magistratura più politicamente schierata. Dice infatti «Sono le motivazioni politico-ideologiche che spinsero alcuni magistrati del Pool ad agire, e l’ambiente intorno a loro ben predisposto, che bastano a spiegare Mani Pulite». Pensi che Burnett abbia ragione?
Non so se Burnett abbia ragione. Dico però questo. Nel 1992, i magistrati potevano contare su un consenso senza precedenti. Sul consenso di oltre il 90% degli italiani (lo dicevano i sondaggi), su quello di praticamente tutta la nuova classe politica – tutta la sinistra, ma anche An e la Lega -, sulla stragrande maggioranza dei giornali… Oggi non è più così. Oggi tutto il centrodestra è schierato contro la magistratura, e nella sinistra sono rimasti solo i girotondini a manifestare per i giudici. Soprattutto, non c’è più il consenso popolare: i sondaggi dicono che la maggioranza degli italiani non ha più fiducia nella magistratura. Come mai? Io penso che gli italiani abbiano avuto la sensazione che Mani Pulite sia stata una giustizia solo parziale, e che siano rimasti molto perplessi di fronte a certi processi come quelli contro Andreotti. Penso insomma che i magistrati dovrebbero interrogarsi su questo crollo nei consensi popolari, e che sbaglierebbero se lo attribuissero solo alla propaganda delle Tv di Berlusconi.
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