
Frana franco-tedesca
Se vi aspettate che a trainare economicamente l’Europa dell’euro nel 2002 sia la famosa “locomotiva franco-tedesca”, state freschi. Se proprio si deve indicare qualcuno attrezzato alla bisogna, meglio guardare ai britannici, o anche agli italiani, in rimonta relativa dopo gli anni dell’Ulivo passati a collezionare maglie nere. Il 2002, come il 2001, sarà un anno di quasi recessione economica a livello mondiale, ma a cavarsela meglio saranno il paese di Tony Blair e quello di Berlusconi, non certo le due grandi socialdemocrazie continentali che vanno verso i rispettivi appuntamenti elettorali (marzo la Francia, settembre la Germania) con poco entusiasmo sul versante degli elettori e molti timori su quello dei governi in carica.
C’è già un record economico italiano
Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) nel suo World Economic Outlook di dicembre, il paese del G7 col più alto tasso di crescita del Pil nel 2002 sarà la Gran Bretagna (1,8 per cento), seguita da Francia e Italia pressoché appaiate (1,3 e 1,2 per cento rispettivamente), mentre Germania, Usa e Canada registreranno una crescita attorno allo 0,7 per cento e il Giappone una crescita negativa. L’Economist Intelligence Unit, officina statistica dell’omonimo settimanale britannico mai tenero con Silvio Berlusconi, stima addirittura che nel 2002 l’economia italiana registrerà il più alto tasso di crescita fra i paesi del G7 (1,9 per cento contro l’1,8 della Gran Bretagna, l’1,7 della Francia, l’1,5 della Germania e a seguire tutti gli altri paesi).
Ma non è tutto: nel corso dell’ultimo anno i tassi di disoccupazione hanno continuato a scendere nel Regno Unito (che ora è il paese del G7 col tasso più basso, 5,1 per cento) e in Italia, mentre hanno ricominciato a crescere in Francia e soprattutto in Germania, che per la prima volta nella storia ha superato l’Italia (9,5 per cento contro 9,4).
Il nostro paese è poi quello che ha resistito meglio alla flessione della domanda di prodotti manifatturieri nell’anno alle spalle: nel novembre scorso ha registrato non solo il più alto indice PMI (Purchasing Managers’ Index) della zona dell’euro, ma quello che è più cresciuto invertendo la tendenza dei mesi precedenti. Si tratta del cosiddetto “Indice dei direttori di acquisto”, un indice economico delle imprese sintetico costituito da 5 componenti destagionalizzate: nuovi ordini, produzione, occupazione, consegne e scorte. Mentre l’Italia è salita dai 44,5 punti di ottobre ai 46 di novembre, la Spagna è passata da 43,4 a 43,9 e la Francia da 42,1 a 42,8; la Germania ha continuato a perdere posizioni, scendendo da 43,9 a 43,5.
Nubi nere su Berlino
Le difficoltà di Germania e Francia sono dovute in misura principale alle politiche contraddittorie dei loro governi, sballottati fra il dirigismo e lo statalismo tradizionali delle loro maggioranze parlamentari e le esigenze di liberalizzazione avvertite come necessarie, benché a malincuore, da Schroeder e Jospin e dai loro ministri economici.
Nel corso del suo mandato Schroeder ha cercato di mettere mano alla riforma fiscale (progressivo abbassamento delle aliquote) e a quella delle pensioni (introduzione dei fondi pensionistici privati), condizioni indispensabili per rilanciare la competitività dell’economia tedesca. Ma si è mosso troppo tardi (la riforma fiscale entrerebbe a regime nel 2005) e la stagnazione del 2001 lo ha bloccato del tutto. Sul versante del mercato del lavoro non ha fatto praticamente nulla, anzi gli ultimi provvedimenti del governo l’hanno ulteriormente irrigidito. Anche la liberalizzazione finanziaria e della corporate governance (la proprietà delle grandi imprese) ha conosciuto un col-po di freno, con una legislazione contro le Opa ostili che è entrata in vigore il 1° gennaio.
Adesso diventerà del tutto impossibile per le imprese europee o americane acquisire il controllo della proprietà dei gruppi industriali tedeschi quotati sul mercato azionario.
Oltre al nazionalismo economico, come giustificazione di questi provvedimenti viene addotta la necessità di proteggere i posti di lavoro tedeschi. Ma il risultato di ciò è esattamente il contrario di quello prefisso: la Germania è l’unico paese della Ue che nell’ultimo quinquennio non è riuscito a ridurre in modo significativo il numero dei disoccupati; erano 4 milioni quando i socialdemocratici sono andati al potere nel 1998, sono 3 milioni e 900 mila oggi. In compenso l’anno scorso la Germania ha registrato la crescita economica più bassa della Ue (0,7 per cento), che quasi certamente verrà bissata quest’anno. Gli investimenti industriali e i consumi restano deboli, e i fallimenti di imprese ammontano ormai a 1.000 alla settimana.
In alcuni casi si tratta di importanti banche private che, come è accaduto recentemente alla Schmidtbank, devono chiudere i battenti nonostante abbiano tagliato migliaia di posti di lavoro nei mesi scorsi a causa, secondo quanto dichiara il presidente della Dresdner Bank Bernd Fahrholz, “la concorrenza disonesta delle finanziarie pubbliche”. Che non sembra dover finire: con l’introduzione dell’euro nel 2002 il debito pubblico tedesco aumenterà, fino a sfiorare la rottura dei parametri di Maastricht.
Tramontana su Parigi
Le cose vanno un po’ meglio in Francia, ma i giorni più rosei del governo Jospin sembrano finiti: nei primi tre anni del mandato del premier socialista il tasso medio di crescita del Pil è stato del 3,3 per cento, mentre il tasso di disoccupazione era sceso dal 12,6 all’8,9 per cento. Ma da giugno dello scorso anno la disoccupazione ha ripreso un andamento crescente, attestandosi, a dicembre, intorno al 9,4 per cento, mentre il Pil annuale non è arrivato a + 2 per cento. L’Insee, l’istituto statistico nazionale, ha annunciato una “crescita zero” per l’ultimo trimestre del 2001 e una stagnazione che durerà almeno fino a primavera.
Il fatto è che alcuni nodi stanno venendo al pettine: la mancata riforma delle pensioni (che accomuna la Francia socialista alla Germania socialdemocratica e all’Italia dell’Uli-vo), l’impatto della graduale applicazione della legge sulle 35 ore sul costo del lavoro e l’insicurezza creata dalla crescente criminalità (il numero dei reati nel primo semestre del 2001 è aumentato del 9,58 per cento rispetto al periodo corrispondente del 2000).
Intanto gli alleati di governo (comunisti, Verdi e “Force Ouvrière”) invitano Jospin a rinunciare all’elemento cruciale della “success story” economica francese: la moderazione salariale. Lo facesse fermo restando tutto il resto, la Francia si ritroverebbe sulla stessa china della Germania.
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