
Festa della mamma, crepuscolo della maternità

Nei giorni scorsi Carlo Giovanardi si è appellato al governo italiano perché si faccia carico di un’iniziativa affinché i bambini nati da contratti di utero in affitto in Ucraina e là bloccati a causa dell’impossibilità per gli acquirenti di recarsi sul posto a causa della pandemia da Covid-19 possano essere adottati sul posto o tramite adozioni internazionali. Nella pratica il suo appello non servirà a nulla, ma un merito ce l’ha: per il fatto che è stato formulato nell’immediata vigilia della Festa della Mamma, è una potente provocazione a una riflessione su quello che è diventata la maternità in questo inizio di XXI secolo.
Il potere misterioso della donna attorno a cui ruotano l’universo psichico e le civiltà dell’umanità, inseparabili dal semplice dato biologico della generazione, è trasformato ogni giorno di più in uno strumento di produzione al servizio della logica del profitto e dell’economia dei desideri. I romani dicevano «mater semper certa est, pater numquam», e i nostri nonni ci hanno insegnato che «di mamma ce n’è una sola». Ma oggi la mamma può essere tripartita in genitore biologico, gestante per altri e genitore affettivo o sociale, o anche quadripartita quando il bebè nato da un utero in affitto è affidato alle cure di una coppia di uomini, uno almeno dei quali cercherà di svolgere il ruolo che sarebbe stato della madre. La madre non è più necessariamente certa e non è più necessariamente una sola. Eppure la retorica si fa sempre più enfatica e il sentimentalismo sempre più sdolcinato a ogni nuovo appuntamento. Come accade per tutto ciò che è mosso da sensi di colpa, o per tutto ciò che nasconde strumentalizzazioni politiche.
Per il femminismo radicale alla Simone de Beauvoir la festa della mamma, con il suo sospetto sottinteso che il destino delle donne è quello di mettere al mondo figli e accudirli senza potersi allontanare dalla casa, puzza tanto di residuo della società patriarcale. Ma è vero esattamente il contrario: la festa della mamma nasce proprio quando, in Occidente, la società patriarcale esala l’ultimo respiro. È una celebrazione che nasce nell’America degli anni Trenta e che in Italia, lasciando da parte la parentesi fascista della molto ideologica “giornata della madre e del fanciullo”, compare alla fine degli anni Cinquanta. Prima di allora non c’era alcun bisogno di celebrare la maternità con una festa fissata sul calendario perché l’intera civiltà – la civiltà delle cosiddette società patriarcali, appunto – era imperniata sulla venerazione della maternità. Non sto per addentrarmi in un elogio della società patriarcale: come tutto ciò che appartiene a epoche passate, andrebbe vista e giudicata nel suo contesto, cosa difficilissima perché sempre si tende ad approvare o a condannare il passato alla luce del presente. Ma, come scriveva Louis Aragon, «nulla è più assurdo che giudicare, che spiegare il passato sulla base del presente. Nulla è più sbagliato né più pericoloso». Cosa che scritta da un intellettuale comunista fa un certo effetto.
Nelle società patriarcali la maternità non aveva bisogno di una festa perché le loro stesse istituzioni nascevano come strategia per proteggere quanto più possibile la maternità nelle difficili condizioni prevalenti. Che erano quelle dell’alta mortalità materna e perinatale: morivano tante madri dando alla luce un figlio, morivano tanti neonati al momento del parto o poco dopo. Tutti i valori e gli istituti della società patriarcale, compresi quelli che oggi ci appaiono inaccettabili come la tutela giuridica della donna assegnata in esclusiva all’uomo, il maschio incontrastato capofamiglia e dominatore della vita sociale, il confinamento domestico della donna, erano funzionali alla salvaguardia della madre e della progenie. E avevano una compensazione nell’attribuzione alla donna del ruolo di regina della casa, in una forma di venerazione filiale che non avrebbe mai potuto ammettere cose come l’internamento in una casa di riposo da vecchia, o l’affidamento a una badante, e soprattutto in un ruolo simbolico insostituibile.
Se le donne vissute prima del XX secolo abbiano vissuto la loro condizione e il loro ruolo come una forma di oppressione e asservimento o come una forma accettata e desiderata di realizzazione di sé non potremo mai saperlo. Quel che è certo, è che il mondo patriarcale non è venuto meno grazie alle lotte femministe e alla conversione dei maschi alla causa femminista, ma è sostanzialmente crollato da sé quando i progressi della medicina hanno creato un mondo nuovo: quello dove il rischio di morte per la madre e per i neonati è drasticamente diminuito fin quasi ad azzerarsi almeno in Occidente. In breve tempo istituzioni e costumi secolari sono divenuti anacronistici. Il femminismo e la Rivoluzione sessuale sono stati colpi di cannone sparati contro un edificio già di per sé pericolante. Qualcosa di simile anche se non identico sta ora succedendo col cosiddetto “matrimonio egualitario”: non è la forza d’urto del movimento Lgbt e dei suoi fiancheggiatori a rivoluzionare quella che forse è la più antica istituzione dell’umanità, ma sono i profondi cambiamenti tecnologici, economici, politici intervenuti nell’ultimo secolo, che hanno reso anacronistica la famiglia naturale, estranea alla logica consumistica, tecnocratica, individualista dominante.
I progressi della medicina che già hanno salvato e ancora salveranno miliardi di vite di madri e di figli, e che di conseguenza hanno reso anacronistico il patriarcato, sono una delle conquiste più felici della storia umana. A nessuno verrebbe in mente di tornare indietro da questo genere di progresso. Resta tuttavia il fatto che hanno creato le condizioni per due fenomeni problematici, uno ideologico e l’altro simbolico, che rischiano di compromettere il futuro della maternità, e dunque di tutto il genere umano.
Il fenomeno ideologico riguarda la rilettura che il femminismo radicale fa della storia dei sessi, interpretandola interamente come la storia dell’oppressione delle femmine da parte dei maschi. Questa interpretazione non solo fa torto ai maschi, che certamente hanno approfittato del patriarcato per accaparrarsi più potere di quanto fosse necessario e puntualmente hanno inferiorizzato il genere femminile, ma hanno anche saputo amare, difendere e onorare le loro donne. Ma fa torto anche alle donne del passato, perché occulta il debito di riconoscenza che abbiamo verso tutte le donne-madri della storia umana, in quanto le dichiara semplici schiave sfruttate contro la loro volontà.
Come scrive lo psicanalista Christian Flavigny:
«Un rigetto collettivo impedisce oggi di capire quello che è accaduto nel campo della femminilità e della maternità (…). Il progresso medico ha fortunatamente modificato il rapporto delle donne con la maternità; questa non è una buona ragione per ignorare il tema centrale della loro vita fino alla metà del XX secolo: un tema sacrificale fatto proprio. Questo rigetto ha per oggetto il debito immemorabile nei confronti delle donne: tutti noi e tutte noi dobbiamo a loro il fatto di essere in vita oggi. È avvenuto a rischio delle loro vite e al prezzo delle loro sofferenze, ed esse lo sapevano. La loro devozione al loro ruolo di madri (devozione, un termine oggi sospetto, ma l’unico in grado di descrivere il loro coinvolgimento) ha conferito loro un posto importante in seno alla famiglia sul piano psichico e simbolico (…). Che ci sia stata o meno un’”inferiorizzazione” delle donne, essa era compensata dalla venerazione delle madri; tale era l’equilibrio della considerazione fra i sessi».
L’altro problema è la svalutazione della maternità, che è il punto da cui abbiamo iniziato questa riflessione. Il progresso medico ha lasciato posto al progresso tecnologico, e il progresso tecnologico si muove nella direzione della rimozione della donna dalla maternità, avvilita a produzione e procedura. La fecondazione assistita è semplicemente una tappa del percorso che conduce alla maternità interamente ingegneristica dell’utero artificiale. Già ora il progresso tecnologico ha prodotto un cambiamento nel costume e nelle mentalità che coincide con una svalutazione della maternità: un numero crescente di persone trova normale che una donna utilizzi il proprio utero come un attrezzo (gestazione per altri) o che una coppia di uomini possa sostituire una donna nel rapporto con il figlio di questa (omogenitorialità maschile).
La normalità che ci aspetta è quella del bebè concepito e cresciuto in un ventre artificiale, senza contatti con la carne materna. Il potere procreativo femminile che secondo Simone de Beauvoir avrebbe ispirato invidia e paura nei maschi al punto di spingerli a schiavizzare la donna, non che trovarsi liberato dall’eclissi del patriarcato viene interamente strappato alle donne e consegnato all’anonimo sistema della produzione, che non è né maschio né femmina. Non c’è da sorprendersi che una parte di femministe abbia deciso di battersi contro l’utero in affitto: hanno capito benissimo la traiettoria del processo che porterà a spossessare la donna del suo potere procreativo.
Foto Ansa
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