
Fenomenologia di Fedez, più che un caso un casino

Esistesse il Nobel assegnato per la categoria di chi maggiormente abbia fatto parlare di sé pur non avendone alcun particolare motivo o merito, Fedez non ne sarebbe semplicemente un vincitore. No. Fedez sarebbe egli stesso il Nobel.
Il podcast di Fedez, narcisismo mascherato da intrattenimento
Il suo podcast, Muschio Selvaggio, è il Progetto Manhattan del narcisismo mascherato atomicamente da intrattenimento e lui l’Oppenheimer della vacuità che viralmente si espande come il Nulla nella Storia Infinita. Muschio Selvaggio è la summa a-teleologica, perché priva di senso e di finalità, di una intera epoca. Come tale andrà studiato dagli archeologi del futuro, quando ci si chiederà «ma come hanno fatto a reggere in mano anche solo una forchetta questi esseri qui?». Perché a Fedez non possono essere applicate nemmeno le categorie epistemologiche che Umberto Eco perfidamente affibbiò a Mike Bongiorno.
A Bongiorno si riconosceva comunque una qualche sudditanza rispetto il sapiente di turno, una esibita ma consapevole e autocosciente ignoranza che riluceva a contatto con il flusso di informazioni sciorinate nello studio televisivo. Bongiorno era uno specchio della cultura che riusciva a darsi senso solo riflettendo la conoscenza altrui. Bongiorno, secondo Eco, «non provoca complessi di inferiorità pur offrendosi come idolo, e il pubblico lo ripaga, grato, amandolo. Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello».
Una luccicante superficie che custodisce il vuoto assoluto
Fedez no. Fedez va oltre. Precisamente, a un livello più basso, ctonio. Basico. Gorgogliante nella sua pastosa zuppa primordiale.
Dalla ipotetica e quasi metafisica fenomenologia di Fedez non può che trarsi il gusto di una autentica ontologia della luccicante superficie che custodisce il vuoto assoluto, fino ad incarnarsi in quello stesso vuoto. Un vuoto infiocchettato, saccente, che ambisce a parlare di tutto avendo in apparenza qualcosa da dover dire non avendo però nulla da dire, nel più trash dei paradossi Zen. Oltre il Bar Sport. Oltre l’opinionismo da uomo qualunque.
Nella annosa, heideggeriana questione del non-essere, Fedez diventa il trattino: né “non” né, santa pace, “essere” ma obliquo collegamento e distanziamento al tempo stesso tra i due estremi. Scintillante nella sua prossemica kitsch di chi riesce a parlare di tutto, cioè tutto un mondo ridotto a volontà e rappresentazione di un discorso da metropolitana, Fedez è il cartellone neon del Caesar’s Palace a Las Vegas, una baudrillardiana replica originante da nessun originale che ha la sua originalità nel riuscire a rendere pop, glamour e sommamente inutile tutto.
Nel linguaggio di Fedez tutto è sempre “pazzesco”
In un range che va dalla mafia alla droga, dalla giustizia ai casi di cronaca, la storia, la cronaca, la morte, il mondo intero nel linguaggio di Fedez diventano “pazzeschi”, “incredibili”, iperbolici, luccicanti, e vengono inghiottiti dalla foschia del trastullarsi.
“Pazzesche”, così ha ad esempio rubricato la capacità imprenditoriale di Raul Gardini e le cose da lui realizzate, nella famigerata puntata che ha visto ospite Davigo. Una puntata in cui il giustizialismo psichedelico dell’ex magistrato avrebbe fatto impallidire il Grande Inquisitore di Dostoevskij, figura letteraria a cui si deve comunque riconoscere, pur nel cieco dogma, una qualche marmorea grandezza, a differenza del fedeziano ospite.
Fedez ha persino la capacità di far credere di documentarsi. «Ho guardato il documentario». Un po’ come rispondere a chi ti abbia chiesto se conosci la Bibbia «certo, ho visto il film». Ma nel suo progetto intellettuale, in questa epoca di rovesciamento di senso e di contesto, di virtù che deve implorare in ginocchio il vizio di potergli fare del bene, Fedez si percepisce e si presenta come il fulcro sapienziale di tutto, gnosi di chincaglieria a prova di svarioni. Perché tanto chi se ne accorge mai.
Gli svarioni di Fedez abbondano
Eppure gli svarioni abbondano.
Perché la sostanza del gioco è quella: sono un punto di riferimento intellettuale e del dibattito pubblico ma non dico di esserlo, dico di essere un gioco privato, un passatempo, per de-responsabilizzarmi, così gli svarioni diverranno la mera cifra pop del mio parlare senza dovermi documentare su nulla. È intrattenimento, bazzecole.
Non devi sentirti in colpa se sorrido, annuendo, assieme alla spalla Davide Marra che sorride pure lui, mentre Davigo inanella le sue perle.
Di svarioni uno molto gustoso lo inanellò ospite Fazio. «Per me fu difficilissimo rientrare in RAI dopo il 2001», aveva chiosato il conduttore ex Rai3 ora approdato a Nove. E Fedez sentendosi arguto «dopo i programmi con Saviano?». Peccato che Gomorra sia del 2006 e che prima di quella data Saviano lo conoscesse giusto Saviano. Forse. O la battuta su Emanuela Orlandi. Ah, ma si è poi scusato. Perfetto.
Non importa chi sia l’ospite, il protagonista è sempre Fedez
Ma oltre questo, è proprio il “metodo” di conduzione, di relazionarsi all’ospite di turno, lo sciogliersi fino ad aderire alla sagoma di chi è stato invitato in studio, colonizzandolo e trasformandolo in un clone oleografico di Fedez.
Fedez-Fazio.
Fedez-Davigo.
Fedez-Saviano.
E questo vale anche per il presunto co-conduttore di turno.
Luis Sal.
Davide Marra.
Chiunque-al-posto-loro-perché-non-esistono-fuori-da-Fedez.
Sono sempre la proiezione spaziale di Fedez.
Sal, tolte le tende, forse lo comprese, dopo aver sbirciato nel nietzschano abisso e aver ricevuto di rimando qualche pessima strofa rap.
Come in Society di Yuzna, menti e corpi nello studio arboreo non si fondono semplicemente tra loro in una intelligenza collettiva (Pierre Lévy perdonaci) ma vengono metabolizzati dalla patina furtiva di un abisso che consiste nel conglomerato post-fisico e post-intellettuale chiamato “Fedez”. Podcast che si espande come Bellona, la città-organismo immaginata da Delany in Dhalgren, ingoiando l’ospite di turno, scalpo appuntato sul petto del tatuato demiurgo.
Inconsistenza sostanziale e incontinenza verbale si danno la mano, sul ponte della verbosità da dodicenne, ma nella prospettiva di Fedez questo è un valore aggiunto, anzi, un elemento imprescindibile: Fedez è là, in apparentemente dimesso, inerte, sparring partner del flusso dialogico, culturale o esperienziale del singolo ospite, ma tutto ciò è solo un abbaglio, una illusione ottica, una mossa Kansas City che storna sguardo e attenzione dell’ascoltatore.
Perché il vero protagonista è sempre Fedez. Come una nube vischiosa Fedez penetra e permea l’ospite, lo rende glamour, pop, spiritoso e appunto “pazzesco”.
Il Davigo icona pop che spiritoseggia di indagati suicidi
Davigo che arcigno spiritoseggia di suicidi tra indagati e arrestati è icona pop che brilla nel deserto informatico del podcast, è la luce intermittente di una Las Vegas il cui piano regolatore è e resta Fedez.
«Chiaro, chiaro, questo mi è chiarissimo» gorgoglia annuendo Fedez mentre Davigo ha appena sbriciolato duemila anni di civiltà giuridica, enunciando il principio del nichilismo giuridico assoluto per cui la conseguenza estrema dell’annullamento fisico sotto condizione di suicidio ricade sul reo, o presunto tale visto che spesso a suicidarsi è l’indagato, nemmeno il condannato in via definitiva e una vita spezzata è ridotta a fonte di informazioni venuta meno.
Una roba che avrebbe fatto invidia alla “sacertà” del diritto romano, quando appunto non vi era grande distinzione tra norma e sfera metafisica. E il diritto diveniva sovente anche castigo divino.
Certo, certo. Gli è chiarissimo.
Così Fedez agita il dibattito pubblico (e lo spinge in basso)
Si dirà: ma non è tutto ciò una glorificazione sia pur ottenuta a contrario, una abbacinante visione dettata da una megalitica allucinazione?
No.
Perché nel suo incedere elefantiaco, il trademark “Fedez” agita il dibattito pubblico, lo spinge a un livello così basso e vacuo da rendersi più che tossico, polarizza i cervelli già non particolarmente brillanti della gioventù e della meno-gioventù e si irradia su giornali social radio televisioni, tutti in ascolto del punto di riferimento intellettuale dissimulato sotto maschera di ospite occasionale, guardato nella prospettiva e nella misura di un automobilista che rallenta e si ferma per scrutare l’incidente stradale.
Ventriloquio di un mondo alla deriva, non episodico commensale del dogmatismo che non riconosce altro Dio fuori dal proprio ombelico, Fedez si accompagna non episodicamente a vettori di dogmatismo intellettuale dal piglio unilaterale, come Travaglio, che dal canto suo rende la corresponsione d’amorosi sensi descrivendo Fedez al pari di un poetico costituzionalista dalla dissacrante verve, un Lenny Bruce mescolato a Calamandrei: «Un rapper che, diversamente da Benigni, capisce la Costituzione e la usa per il verso giusto: per dissacrare il potere in base all’articolo 21».
Qui siamo passati dalla biopolitica di Foucault alla Fedez-politica, così piccina, rosea, in apparenza divertente da inocularsi nel fondo della coscienza senza incontrare resistenza alcuna, trasformando in potere e marketing e denaro il rovesciamento saturnino di un tempo che divora i propri figli.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!