
Fenomenologia della maglietta da stadio (Andrea Poli, io non t’ho scordato)

Non mi era mai capitato di andare allo stadio per due partite di fila. Domenica l’ho fatto: ero appena uscito da San Siro dopo Milan-Torino, un tetro uno a zero con Ibrahimovic che ciondolava nel freddo di metà febbraio 2020, per giunta di lunedì sera; ci sono subito tornato appena è stato possibile far entrare nuovamente il pubblico allo stadio, il 29 agosto 2021, per fortuna di domenica. Forse perché nel frattempo mi ero abituato a guardare le partite sul divano di casa, vestito come una persona normale, la prima cosa che mi ha colpito del rientro è stata la gran quantità di spettatori che addosso la maglia della squadra. Per fortuna il risultato è stato deciso nel primo tempo, così ho potuto trascorrere la ripresa a fare una delle cose più istruttive che si possa fare allo stadio: guardare il pubblico.
Le infinite varianti della maglia ufficiale
I tifosi, si sa, vivono un’identificazione mistica. Per questo, specie dal vivo, ci tengono a mostrare appartenenza indossando la maglia della squadra; se non che quest’atto volto a riconoscersi in una comunità è controbilanciato da un simultaneo atto di individualismo.
Non siamo più ai tempi in cui bastava una roba con su strisce rosse e nere, che poteva andare bene anche per il Foggia e per la Lucchese: la maglia della squadra in generale non esiste più.
Esistono invece pressoché infinite varianti della maglia ufficiale, fra anno d’edizione, prima seconda o terza divisa, numero sulla schiena e nome stampigliato, così tante che senza essermi messo a contarli posso assicurarvi che tutti i tifosi che riuscivo a distinguere dal secondo anello, domenica a San Siro, indossavano una maglia diversa.
Meglio di un manuale di sociologia, lo stadio tornato a ribollire dimostrava come essere tutti insieme ma ognuno per conto proprio.
L’ammiratore di Andrea Poli
A spanne, ho individuato alcune macrocategorie. Ci sono quelli che indossano la maglia della stagione in corso e quelli che indossano maglie di stagioni addietro. Questa suddivisione va intersecata con quella fra chi indossa la prima divisa rossonera, chi indossa la classica bianca da trasferta, e i fantasiosi che si perdono nella variopinta selva delle tenute alternative.
Ho molto ammirato un sofisticato perverso che si è presentato con addosso la terza maglia di sei anni fa; per giunta sulle spalle aveva il nome di Andrea Poli, centrocampista che oggidì gioca in Turchia, nell’Antalyaspor, forse del tutto ignaro di questo pertinace ammiratore.
La scelta del nome sulla schiena è sicuramente la più indicativa, poiché lascia briglia sciolta alla definizione del carattere individuale nella cornice di un evento di massa.
Ci sono quelli che vivono il tifo come trasporto, quindi accettano di portare sulla schiena un nome che non è il proprio ma quello di un calciatore, al quale non somigliano nemmeno nei propri sogni più sfrenati.
Ci sono quelli che vivono il tifo come espressione di sé, quindi preferiscono personalizzare il tessuto col proprio nome, o diminutivo, o soprannome. Il signore in fila ai tornelli davanti a me recava scritto sulla schiena “Las Vegas”; solo il timore di una rissa mi ha impedito di domandare lumi.
Sì, c’era un Savicevic
Non voglio trarre conclusioni ma ho notato che le donne, allo stadio, fanno le protagoniste meno degli uomini e si uniformano meglio.
Ho visto su schiene muliebri innumerevoli maglie di Ibrahimovic (che di muliebre non ha proprio niente) e un corposo numero di maglie di Giroud, scelta che denota un certo fiuto – domenica ha fatto due goal – o forse una cieca fiducia nell’avvenire, trattandosi dell’ultimo grande acquisto che ancora non aveva avuto l’onere di esibirsi davanti al pubblico di San Siro.
I maschi invece è proprio vero che con il calcio recuperano l’infanzia ogni settimana, come scriveva Javier Marías.
Come i bambini dicono “facciamo che io ero un medico, facciamo che tu eri un dinosauro”, gli adulti allo stadio giocano a reincarnare un calciatore scelto per motivazioni spesso arcane o romantiche o di straziante nostalgia (sì, c’era un Savicevic), come a creare una realtà alternativa in cui i calciatori se ne saranno andati ma i nomi sono rimasti impigliati per sempre nella storia e nelle nostre vite.
Per questo vorrei dire una cosa ai tifosi juventini che l’altro giorno hanno indossato maglie su cui il nome del reprobo Ronaldo era storpiato a colpi di pennarello.
Un giorno rimpiangerete gli anni in cui Ronaldo giocava nella Juve ed eravate felici, ma ciò che vi resterà sarà soltanto una maglia rovinata.
La mia maglia del 1994
Indossare una maglia allo stadio per sentirsi tutti uguali significa trovare ciascuno una caratteristica saliente di essere diverso: la maglia del campione di turno significa saltare sul carro del vincitore, quella del nuovo acquisto significa ottimismo ingiustificato, quella vintage è passatismo, il proprio nome è egocentrismo, il proprio nomignolo è infantilismo, il nome storpiato (“Spavaldo”, “Fa Caldo”) sterile vendicatività.
La mia maglia è quella della finale di Coppa dei Campioni del 1994 (sono un laudator temporis acti), bianca con bordi rossoneri (ci tengo all’eleganza), col tricolore sul petto (ci tengo alle gerarchie). Sulla schiena non c’è scritto nessun nome; forse sono nichilista, forse ho problemi di autostima.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!