Fassino va alla guerra

Di Angela Pellicciari
03 Maggio 2001
Certo che Cavour voterebbe Fassino. Perché come D’Alema in Kosovo così anche il conte Camillo Benso mandò in Crimea dei soldati tanto per fare un po’ di rappresentanza. E potersi sedere al tavolo dei vincitori. La battuta di Fassino è molto più vera di quanto (anche lui) pensi

Ci mancava solo la Crimea. Ecco un’interessante posizione del candidato vice-premier Fassino espressa sulla Stampa di Torino: Cavour voterebbe per me. E io, se a Torino vincerà il sindaco dell’Ulivo, «gli chiederò di nominarmi presidente del comitato per i 150 anni della spedizione di Crimea». Così l’attuale guardasigilli che, con questa magnanima idea del comitato, sembra voler ripagare Cavour della scelta di campo a suo favore (la pretesa è a dir poco singolare provenendo Fassino dalle fila del partito comunista).

L’inutile massacro di pochi mercenari
Diego Novelli, anche lui torinese, anche lui comunista poi pidiessino poi diesse, a partire da documenti inediti, si è fatto della guerra di Crimea un’idea del tutto diversa. Lo ha raccontato in una specie di romanzo storico (Amor di patria si chiama) in cui, riflettendo sulla spedizione di Crimea, mette in bocca al protagonista ferito e delirante il seguente apprezzamento sulla nuova compagine statale che si va delineando: «mostro di nazione fondata sulle ambiguità, sugli imbrogli, sul malaffare, sul cinismo, sulla criminalità». In Crimea, secondo Novelli, «si doveva mettere in evidenza il tributo di sangue piemontese: Cavour voleva riscuotere l’investimento con gli interessi». Grazie a «quell’assurda guerra il piccolo Piemonte era stato ammesso al Congresso di Parigi come sesta potenza e con l’appoggio di Francia e Inghilterra aveva potuto pretendere di rappresentare ventisei milioni di italiani oppressi». Il sangue piemontese che doveva portare frutto (ci si ricorderà della seconda guerra mondiale voluta anch’essa da Mussolini per stare al tavolo di pace da vincitori grazie ad una manciata di morti) era formato da un esercito di quindicimila soldati mandati a fare onore alla madrepatria« come un piccolo esercito di mercenari», al seguito degli inglesi, senza neanche una tenda da campo: «nessuno aveva pensato che l’equipaggiamento doveva comprendere un adeguato numero di tende da campo». Lasciati sotto il sole senza alcuna protezione «i nostri soldati sono indeboliti in modo tale da non reggersi in piedi» ancor prima di combattere. Quello che Novelli definisce un’«inutile massacro» lascerà sul campo un terzo dei partecipanti. Circa cinquemila uomini. Per capire quanto estraneo fosse il Piemonte alla guerra di Crimea, quanto recalcitrante fosse la popolazione ad entrare in guerra in tempo di pace, quanto lontani fossero gli interessi in gioco da quelli del regno sardo, conviene leggere alcune righe della Vita di Cavour scritte dall’amico e biografo William De la Rive. «Il primo atto politico per il quale Cavour abbia dato la misura del suo genio», scrive De la Rive, è la decisione presa «freddamente, nel segreto delle meditazioni solitarie», di entrare in guerra in piena pace. «Decidersi a lanciare il proprio paese in una guerra di cui non si prevede né il termine né le conseguenze e nella quale gli interessi di questo paese non sono così direttamente impegnati che sembrano appena offrire un pretesto per prendervi parte», questo – pensa De la Rive – è il tratto del genio. Come è riuscito Cavour ad avere ragione di «un’opinione pubblica turbata, ostile, lenta a comprendere» e di un parlamento «spaventato e recalcitrante»? Mettendo l’uno e l’altra di fronte al fatto compiuto: stipulando insieme al Re un accordo con Francia e Inghilterra che, a cose fatte, nessuno può più mettere in discussione. Grazie a questo espediente – degno precedente dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 – «la follia di mandare dei concittadini a farsi ammazzare in combattimenti lontani, per una causa straniera» diventa realtà. A questo punto De la Rive riporta, senza condividerlo, il giudizio che a quei tempi circolava su Cavour: «nella massa del pubblico europeo Cavour fu accusato di ambizione meschina e di vanità, fu considerato come invasato dalla smania di rappresentare una parte e di innalzarsi a spese del proprio paese, di insinuarsi tra i potenti allo scopo di aumentare la sua personale importanza».

Si fa l’Italia (coi soldi inglesi)
«A spese del proprio paese»: questo accenno ai costi dell’impresa ci sembra vada sviluppato. Il Piemonte entra in guerra nel 1855, un anno dopo l’inizio delle ostilità. Quel lasso di tempo è impiegato da Cavour per cercare di ottenere contropartite allo sforzo bellico del piccolo regno sardo. Tentativo vano perché le sue richieste vengono respinte una dopo l’altra. Pier Carlo Boggio, oggi un illustre sconosciuto, all’epoca un liberale molto influente, scrive: «Noi abbiamo osato aspirare ad un’impresa degna di qualunque più forte e più potente Stato: noi abbiamo voluto fare l’Italia». E così, con la scusa dell’Italia, il Piemonte va in guerra proprio come se la politica di potenza che si gioca fra i grandi del mondo potesse riguardarlo; e lo fa senza contropartite. Per gli ultimi arrivati l’importante è esserci: e il Piemonte, a combattere in una terra lontana per interessi e ragioni completamente estranei ai suoi, c’è. Con la guerra di Crimea la politica cavouriana raggiunge il paradosso: il Regno di Sardegna, che si prepara ad una guerra di liberazione nazionale contro l’Austria – al momento sua alleata – combatte per difendere le ragioni dell’impero ottomano, per secoli conculcatore dell’indipendenza politica e della libertà religiosa degli stati cristiani, della penisola balcanica. Un’ultima considerazione: nel 1854 le finanze piemontesi giacciono già in uno stato comatoso. Dove trovare i soldi per l’impresa? Si tratta di finanziarla ricorrendo ad un ennesimo prestito con l’Inghilterra. Il Piemonte pagherà questo debito solo in piccola parte: a farlo ci penserà il Regno d’Italia che lo estinguerà nel 1902. «Dopo il Kosovo la politica estera di Cavour è tornata di incredibile attualità»: forse il guardasigilli non immagina quanto profonda sia questa associazione. Se si pensa a D’Alema, primo presidente del Consiglio post-comunista che porta l’Italia in guerra dopo cinquant’anni di pace e dopo aver per tutta la vita sbandierato posizioni di pacifismo filobolscevico, non c’è male. Cavour voterebbe «per me, che sono il suo erede» afferma Fassino. Come paragone è un po’ immodesto. Nella sostanza è perfetto.

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