Famiglie, briciole e scugnizzi

Di Caterina Giojelli
06 Maggio 2016
Quelli che scappano, quelli che si ribellano, quelli che muoiono, quelli che riappaiono. L’avventura titanica dell’affido

affido

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Un giovedì sera di otto anni fa ero per caso a una messa», «trent’anni fa, eravamo tutti a tavola», «erano le otto di sera, ero appena rientrata dal lavoro». Hanno buoni occhi e non stanno alla finestra a guardare, scavalcano quaderni e giocattoli, calpestano briciole di cracker, ma corrono ad aprire la porta. Una, due, anche decine di volte. Per i propri e per i figli degli altri. Hanno una buona vista e sanno che quel giovedì, quella sera, durante quella cena, la strada di qualcuno si è biforcata, un pezzetto verso la loro casa, e l’altro chi lo sa? Per questo non amano trebbiare parole inutili, ma corrono ogni volta verso quella porta come il primo giorno, il primo «eccomi» con cui risposero a una proposta di affido, perché «posso accogliere decine di bambini, ma se perdo il sì iniziale mi accorgo della sterilità del mio sforzo umano». E poi come li guardi quelli che scappano, quelli che si ribellano, quelli che ti chiamano «quella che fa da mangiare», quelli che ti dicono «dimmi che me ne devo andare ma non che mi vuoi bene», quelli che se ne vanno, e a volte anche per sempre?

«Posso stare qui quanto voglio?», aveva chiesto Irene a Pietro. Lei allora era solo una ragazzina di quindici anni, con un figlio di un anno, incinta di una bambina. E Pietro per sette anni le aveva fatto da padre, mostrato cosa fosse una famiglia, trasmesso la fede e, soprattutto, quella certezza – «questa è proprio l’opportunità di farsi aiutare, di lasciarsi voler bene da Gesù» – che Irene avrebbe testimoniato a tanti ragazzi che come lei vivevano in famiglie affidatarie dell’Associazione Fraternità di Monte Cremasco, nata nel 1984 in provincia di Cremona da un gruppo di amici esortati da don Luigi Giussani ad esprimere gratitudine per il loro incontro con Cristo nella condivisione del bisogno dell’uomo. Ed erano nate le prime “comunità familiari”, una cascina in cui tre famiglie sarebbero diventate il punto di riferimento per oltre trecento famiglie di tutte le province lombarde, con presenze significative anche in Piemonte, Veneto, Toscana, Umbria e Sicilia. «Quel sì per me voleva dire aver trovato una casa. Lì ho capito che i miei bambini ed io, saremmo sempre stati voluti bene». Voler bene: mai immedesimazione sentimentale, mai emanazione di una regola, oggi come trent’anni fa. Paolo aveva detto chiaro e tondo a Tommaso: «Noi ti vogliamo bene, ma se vuoi continuare devi starci, devi esserci anche tu». E Tommaso se ne era andato. «Verso Natale mi richiama e mi chiede se posso ospitarlo. Vieni a pranzo, gli dico, ci sono anche i nonni. Dice che viene con questa sua fidanzata, che alle 11 sarebbe arrivato in città. Figli contentissimi, nonni commossi, attesa enorme. Alle 12.30 non arriva e iniziamo a mangiare. Alle 16 mi chiama, “no sai, di qui di là, di su di giù”. Vado a prenderlo, festa pazzesca dei miei figli e io che penso che se qualcuno mi chiedesse di descrivere quel ragazzo dovrei rispondere che mi ha sempre gridato in faccia “fammi vedere fino a che punto mi vuoi bene”. La sera lo accompagno in una comunità dove entra di nascosto con la morosa e mi dice “domani vengo a mangiare, ci vediamo alle 11”. Mi telefona alle 14.30. L’ho mandato a quel paese!».

Altro che “affettivamente neutri”
Hanno una buona vista, corrono ad aprire la porta. E la spalancano per dire «eccomi» a qualcosa di imprevisto, che scappa, si ribella. E sanno che per affrontare la partita non si confida nei calcoli ma in un’amicizia, che è un po’ come quella di quei dodici zotici incolti che seguirono quel Gesù così manifesto per Irene, poco alla volta, costruendo cattedrali, costruendo un’intera civiltà per seguirlo. Non è una quisquilia, in questa partita le regole non bastano. C’è sempre qualcosa di incalcolabile che viene e che verrà. «Come ci diceva Giussani, l’accoglienza imita il modo in cui Dio guarda la sua creatura e per un Mistero, permette che questo abbraccio accada attraverso le nostre mani, il nostro agire, far da mangiare», racconta Daniele.

Secondo il Rapporto Affidamenti familiari e collocamenti in comunità al 31 dicembre 2012, redatto dall’Istituto degli Innocenti di Firenze e pubblicato l’anno scorso dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, i bambini e i ragazzi tra gli 0 e i 17 anni allontanati dalla famiglia di origine sono 28.449 (in leggero calo rispetto al 2011, quando furono 29.388) e di questi la maggior parte viene affidata prevalentemente alle comunità residenziali: 14.255 minori contro i 14.194 in affido familiare. In particolare, nei servizi residenziali si concentra la maggior parte dei bimbi dagli 0 ai 2 anni (il 64 per cento) e dei ragazzi tra i 15 e i 17 (il 66 per cento): complessivamente piccoli e piccolissimi, tra gli 0 e i 5 anni, cumulano meno del 15 per cento del totale degli accolti in affidamento familiare. «La preferenza per l’inserimento in comunità rispetto all’affido familiare nonostante siano conosciute da decenni le conseguenze negative sullo sviluppo dei minori della carenza/deprivazione di cure familiari nei primi anni di vita», denuncia il 7imo Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza in Italia 2013-2014, «appare ancora più grave se si guarda all’elevata percentuale di minori di età compresa tra gli 0 e i 2 anni allontanati dalla famiglia e inseriti in comunità (…). Esistono forti resistenze culturali da parte di giudici e operatori sociali che li portano ancora a preferire l’inserimento in comunità, ritenuta una soluzione “affettivamente neutra”, invece dell’affidamento familiare, in quanto i legami affettivi instaurati dal bambino con gli affidatari ostacolerebbero le collocazioni successive».

Imperfetta, sgarrupata e tutt’altro che affettivamente neutra, fin dall’inizio, l’Associazione Fraternità ha scommesso sulla famiglia come luogo naturale dove ricominciare è sempre possibile per tutti. «Sembrava uno scugnizzo, pieno di tatuaggi, andava scalzo a giocare a pallone», racconta Francesco. «Poi Michael è arrivato, gli chiesi di leggere il nome della nostra città e lui rispose con un’altra. Non aveva imparato niente a scuola. Quante estati terribili per cercare di insegnargli a leggere, scrivere, fare di conto. Poi un giorno ha iniziato a non stare bene. Venne sottoposto a un trapianto cardiaco. Ci dissero che potevamo stare tranquilli, e invece. Il giorno del suo funerale c’era sua mamma che faceva le condoglianze a me, io che le facevo a lei, e il padre a sua volta. E c’erano anche tutti i nostri ex figli che non sono più in affido da noi e ne hanno fatte di tutti i colori, sono venuti tutti e non da soli: c’erano anche i loro genitori, perfino il padre di un ragazzo che aveva minacciato di denunciarmi era lì e mi abbracciava. Ci voleva questo scugnizzo per metterci tutti insieme».

Anche nel dolore di un figlio che muore e resta impresso a fuoco nel cuore di un genitore: per mantenere fede a quel primo sì sperimentato durante i quattro anni di malattia del loro bimbo, Benedetta e suo marito hanno ricominciato da un altro sì, quello all’affido di Samuele, certi di non essere soli e dei rapporti fioriti in quel periodo, certi come Sasha, che a mamma e papà affidatari scrive «ogni giorno ne combino sempre una più grossa. Voglio chiedervi un’altra possibilità. Anche se non lo dimostro su questo potete credermi: vi voglio immensamente bene».

Un sostegno insostituibile
Il 25 ottobre 2012 vengono approvate dalla Conferenza unificata Governo-Regioni/Province autonome le Linee di indirizzo per l’affidamento familiare, al fine di «indirizzare, sostenere e disciplinare l’affidamento come modalità, condivisa e omogenea a livello nazionale di tutela, protezione e intervento in favore del minore. In sostanza queste linee invitano Stato, Regioni ed enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, a promuovere con maggiore incisività gli affidi familiari affrontando in maniera trasversale l’organizzazione dei servizi, gli strumenti e i rapporti con l’autorità giudiziaria allo scopo di dare l’opportunità ad un minore di crescere in una famiglia», spiega Tiziana Camera, famiglia affidataria e una dei responsabili dell’Area Affido Familiare di Famiglie per l’Accoglienza. L’associazione nasce nel 1982 nell’ambito del movimento di Cl guidato da don Giussani da famiglie che accolgono nella loro casa temporaneamente o definitivamente una o più persone che hanno bisogno di una famiglia, diffondendosi negli anni in Italia e all’estero».

Le Linee guida «sono un documento importante considerata la situazione italiana che presenta una grande difformità di situazioni e applicazioni delle normative di riferimento: ci sono istituzioni che hanno dimostrato un’attenzione mirata al tema dell’affido (penso per esempio alla Delibera della Regione Marche che prevede un riconoscimento anche economico alle associazioni delle famiglie affidatarie che ne fanno parte, riconoscendo in esse un valore aggiunto per il buon esito dell’accoglienza) o, viceversa, di grande incuria, basti pensare che in molte regioni del sud non viene erogato il sussidio alla famiglia affidataria. Ci sono poi problemi di tipo fisiologico: alcuni Comuni accompagnano in modo puntuale gli affidi e chi per mancanza di fondi non si vede quasi mai. Gli operatori sociali lavorano spesso in emergenza, dovendosi occupare di moltissime situazioni, allungando i tempi di soggiorno nelle comunità e rendendo impraticabile una attività di monitoraggio costante nei primi mesi di ingresso in famiglia. Eppure le famiglie disposte ad aprire le porte della propria casa ci sono».

L’opinione pubblica considera spesso l’affido come un’esperienza “eccezionale”, mentre, «è un’esperienza possibile a famiglie normali. Accogliere la diversità, perdonarsi, far fronte agli imprevisti, mettersi a disposizione dell’altro senza tornaconto sono caratteristiche che fanno la bellezza possibile di una famiglia. Accogliere è un’esperienza significativa per tutti, in un tempo come il nostro in cui i media preferiscono focalizzarsi sulle distorsioni e sulle fragilità delle famiglie e dimenticano che le famiglie sostengono oggi il peso maggiore della crisi offrendo un sostegno insostituibile alle persone più fragili».

«Mai da soli!»
L’affido vede dall’inizio coinvolti molti soggetti che insieme sottoscrivono un patto in cui ciascuno si impegna per il bene del bambino: il servizio tutela del territorio, il Tribunale, la famiglia d’origine, la famiglia affidataria, il servizio affidi, l’associazione di famiglie. «“Mai da soli!” è il consiglio che sempre diamo alle coppie che danno disponibilità per l’affido. Per questo cerchiamo di offrire spazi di condivisione e di appartenenza, luoghi di vita in cui le famiglie affidatarie possano sperimentare il continuo rinnovarsi della motivazione e del significato dell’esperienza».

Laura e Andrea non hanno figli naturali quando «un giovedì sera di 8 anni fa, a una messa feriale stavano cercando una famiglia per una adolescente. E arriva Francesca, a ribaltarci la vita per sei mesi. Poi, dopo una vacanza con la sua mamma, decide di non tornare. Dopo un mese arriva Carlos: deve studiare un anno in città e ci riempie la casa di amici. Questa sovrabbondanza di bene ci ha convinti a dare nuova disponibilità all’affido di Ana. E da quel “sì” ricomincia ogni giorno la vita».

«Un giovedì sera di otto anni fa», «trent’anni fa, eravamo a tavola», «erano le otto, ero rientrata dal lavoro». Accade tutto in un momento. Come il giorno di Pasqua, quando Silvia, quattro anni dopo essere entrata nella «famiglia cristiana» di Chiara e Lorenzo ha chiesto e ricevuto Battesimo, Cresima ed Eucarestia. «Qui ho vissuto la presenza di Cristo: in casa, nella malattia del papà, nel modo in cui la mamma faceva compagnia al papà e nel modo in cui i loro amici l’appoggiavano», scrive in una lettera indirizzata al cardinale Angelo Scola per essere ammessa ai sacramenti. «Essere voluta bene per quel che sono, sapere che è qualcun Altro che mi ha voluta al mondo. Poiché riconosco che i miei giorni acquistano significato, non voglio lasciarLo». E la storia di quel sì, di tutti gli «eccomi» sgarrupati, imperfetti e tutt’altro che neutri, continua ogni giorno. 

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