“Factum est”, una mostra che rappresenta il mistero della vita in grembo

Di Benedetta Frigerio
24 Maggio 2013
Ospitate a Milano, la serie di Pietro Albetti, che rappresenta alcune ecografie, e le opere di Simone Dulcis, rivelano come si fa a conoscere.

Un insieme di tele che rappresentano un’opera che c’è già e che l’artista ha solo riconosciuto. “Factum est”, “È nato”, secondo l’espressione usata da Giovanni Testori per indicare il feto, è il titolo di una mostra realizzata «per dire che la vita è prima della vita. Se davvero cerchi, percepisci l’essere dentro ciò che appare, ma devi volerlo». Sono le parole del curatore, Andrea Carlo Alpini, che ha unito il lavoro di Pietro Albetti e quello di Simone Dulcis, ospitati fino al 9 giugno negli spazi Loft21 di via Padova 21 a Milano.

LUCI, OMBRE E SUONI. Le tele di Albetti sono 25 e rappresentano le ecografie di una bambina nel ventre della madre, le cui fattezze sono visibili nel gioco di luci e ombre, realizzato tramite moltissime stratificazioni di inchiostro da stampa e stese con stracci. Esattamente come l’ecografia risulta da una lunga sovrapposizione di frequenze di ultrasuoni. «A questo punto – spiega Alpini a tempi.it – si pone il tema della conoscenza». Quello che si ha davanti è sempre frutto di una serie di accadimenti, da guardare e unire insieme per scoprirne sempre di più l’essenza. «C’è poi il suono dell’ombra, perché davanti a queste tele si può anche vedere solo il nero e il bianco e non il bambino in grembo. Ma così si nega qualcosa, perché la luce e l’ombra non ci sono senza un corpo. Un corpo che rilevato anche dagli ultrasuoni e dal battito cardiaco».
Da qui emerge la percezione dell’artista per una presenza reale e misteriosa, anche se non la si vede del tutto. E una volta che si riesce a riconoscere il bambino è poi impossibile staccare gli occhi dalle immagini. Si vuole scoprirne i tratti. Piano piano comincia così ad emergere la fisionomia del piccolo: il naso, la testa, gli occhi. E poi le cavità uterine e altro ancora.
Su una tela (in foto sopra, Credit: Theca Gallery Lugano) appare un volto di donna che fissa una bambina. «Ecco il tema del tempo. Per conoscere bisogna volerlo, poi percepirlo e infine attendere con pazienza». Uno strato alla volta appunto.

CONOSCENZA E PAZIENZA. Le opere di Dulcis (foto a destra, Credit: Theca Gallery Lugano) nascono dal recupero di alcuni teloni da un cantiere di un’antica chiesa di Cagliari. «Erano lì a proteggere i lavori di restauro dagli agenti atmosferici: come l’utero protegge qualcosa di delicato e prezioso», spiega Alpini. L’artista le ha prese, le ha lasciate ancora esposte agli intemperie per un anno e poi ha bloccato la materia sulla tela.
Questo aspettare, questa pazienza affinché sia l’esterno a compiere l’opera è parte integrante dell’opera stessa. Come ha spiegato lo stesso Dulcis: «Mi interessa che la luce venga da dentro l’opera (…) la mia è una predisposizione ad aspettarla. Predispongo lo svolgersi delle prime fasi dell’opera per far sì che si verifichi la magia della “luce”, compiendo dei gesti che sono di puro ausilio al verificarsi di questo piccolo miracolo». Esattamente come l’uomo che non crea nulla, ma aiuta solo il piccolo a nascere. Testori parlava di un atto divino di speranza, una luce inseparabile dal “grumo”: «Non è come dire una luce che entra; è una luce che è già lì; è anzi la luce che lo vuole, che lo determina, che lo forma».

@frigeriobenedet

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