Europa spensierata

Di Rodolfo Casadei
01 Maggio 2003
L’Europa respinge il principio di realtà. A causa di traumi storici e cattivi maestri francesi

Come ha scritto Francesco Merlo sul Corriere della Sera all’indomani delle mortificanti vicende del 25 aprile, «più cresce il numero delle manifestazioni di piazza, più si allunga la vacanza del pensiero. Il pensiero ci manca come il cerchio manca a una botte che perde da tutte le parti… Ebbene, invece di produrre pensiero noi produciamo manifestazioni di piazza, che del pensiero non sono più neppure le scorciatoie… è dunque per non pensare che corriamo in piazza?». Alle manifestazioni di massa, difatti, ci si va o per ribaltare la realtà, cioè per fare la rivoluzione, oppure per evadere dalla realtà. E siccome negli ultimi 58 anni in Europa di rivoluzioni non se ne sono viste se non all’Est, è inevitabile concludere che, almeno nell’Europa occidentale, in piazza ci si va per evadere dalla realtà, per evitare di pensare, in una parola: per desiderio di regressione, infantile e primitiva. Per fare le boccacce al sindacalista sgradito, fare giro-girotondo e dire le parolacce al capo del governo, gridare tutti insieme “fuori la guerra dalla storia” nell’illusione che questa sia la formula magica che ci regala mille anni di pace. Loro si divertono, qualcuno li usa per fare carriera e nulla cambia. Il buon positivista Gustave Le Bon aveva già capito tutto più di 100 anni fa (facciamo leggere ai nostri ragazzi la sua Psicologia delle masse).

Figuraccia dell’Europa pacifista nei Balcani
Le odierne manifestazioni pacifiste sono il massimo di perdita del principio di realtà da parte di masse di europei. è evasivo della realtà sia il mezzo espressivo scelto che il programma enunciato. Escludere a priori l’uso della forza significa incoraggiare aggressori potenziali e malintenzionati di tutto il mondo: non è un contributo alla costruzione della pace nella giustizia, ma alla proliferazione dei conflitti e all’avvento di paci ingiuste. L’allergia al ricorso alla forza nelle crisi politiche internazionali non è, come si vuol far credere, il vertice di civiltà inarrivabile che solo l’Europa ha saputo maturare, ma uno sciagurato segnale di debolezza foriero di infiniti lutti, come dimostra la tragica parabola dei Balcani. L’Europa ha lasciato marcire le crisi balcaniche, al punto di diventare complice delle stragi che hanno fatto centinaia di migliaia di morti, a causa della sua vigliaccheria camuffata da senso di superiorità. Il senso di superiorità di chi ha stabilito una volta per tutte che la soluzione delle controversie attraverso la guerra va rifiutata; la vigliaccheria di chi, in nome del principio suddetto, gira la testa dall’altra parte, si tiene fuori dal conflitto e così facendo tollera che vengano compiute violenze atroci. Il risultato di questo moralismo immorale è tutto in una frase di Patrice Canivez che è anche un giudizio sull’attitudine europea davanti alle crisi balcaniche: «La tolleranza della violenza ha provocato l’esacerbazione della violenza».
Il rifiuto europeo dell’uso della forza non rappresenta il raggiungimento di un vertice di civiltà, ma il segno più vistoso della perdita del principio di realtà. Ma come è avvenuto tale smarrimento? Una parte della spiegazione l’ha già data Robert Kagan, suggerendo che il cinquantennale ombrello militare americano e l’appalto della propria sicurezza agli Stati Uniti è diventato per l’Europa un dato di fatto talmente scontato da non essere più percepito, come se davvero il mondo tutto intero fosse entrato nella post-storia e non ci fossero più prezzi da pagare per la libertà, la sicurezza e la prosperità. Ma c’è un altro livello del discorso, che Kagan non affronta: l’Europa è incapace di pensare le questioni della potenza, dell’uso politicamente responsabile della forza, delle minacce alla pace non soltanto perché a queste cose per mezzo secolo ha pensato l’America al suo posto, ma anche perché da mezzo secolo gli europei non pensano più di avere qualcosa da difendere e promuovere. E questa è la ragione profonda per cui l’Europa non disporrà mai più, nemmeno in antagonismo agli Stati Uniti, di una forza militare importante e della volontà di utilizzarla in scenari globali.

L’avvento del relativismo culturale
Il punto è questo: fino ad un secolo fa gli europei si concepivano come i depositari della civiltà universale e giustificavano la potenza dei loro stati come il logico prodotto di tale superiorità culturale e come lo strumento provvidenziale per la diffusione di tale civiltà presso gli altri popoli. Oggi sono totalmente sprofondati in una visione relativista che gli fa dire: nessuna civiltà è migliore di un’altra, tutte le identità devono essere rispettate e mantenute perché tutte si equivalgono in quanto frutto di processi storici. Non esistono differenze di valore, ma solo differenze storiche che producono sistemi simbolici diversi. L’unica civiltà che non merita molto rispetto è quella occidentale, per due ragioni: 1) ha preteso di concepirsi come civiltà portatrice di valori universali, ha rifiutato la relatività; 2) ha tentato di imporre il proprio patrimonio culturale alle altre civiltà. è ovvio che un soggetto storico schiacciato dai sensi di colpa rispetto al suo passato (il colonialismo) e che ha interiorizzato l’idea che tutti i sistemi di valore sono equivalenti fra loro non ha nessun motivo per tenersi pronto all’uso della forza e ne ha molti per escluderla a priori: le conseguenze politico-morali del relativismo culturale sono il disimpegno, la rinuncia, l’astinenza da tutto ciò che potrebbe configurarsi come l’imposizione della propria particolarità travestita da universalità agli altri, fosse pure la parola fine alla pulizia etnica in Bosnia e in Kosovo. Finché potrà se ne terrà alla larga, invocando le Nazioni Unite; poi parteciperà ai non più rinviabili interventi solo affidando ad altri (Nato, Usa) le responsabilità maggiori e favorendo le strategie militari più discutibili dal punto di vista morale (attacchi esclusivamente aerei, nessun combattimento di truppe sul terreno). L’avvento trionfale del relativismo culturale in Europa ha dei nomi e delle date precisi. Nomi, date ed avvenimenti che illustrano come un continente dove, nel 1895, il primo ministro francese Jules Ferry poteva affermare «… la Francia non può sottrarsi al “dovere di civilizzare” i popoli rimasti più o meno barbari. Questi doveri sono stati spesso ignorati nei secoli precedenti… Ma oggi io sostengo che le nazioni europee assolvono con larghezza, con grandezza e onestà questo dovere superiore della civiltà… Può forse qualcuno negare che non ci siano maggiore giustizia, ordine materiale e morale, più equità, maggiori virtù sociali nell’Africa del Nord da quando la Francia se ne è impadronita?» sia diventato un luogo dove il College de France (la più alta istanza accademica francese) scrive al presidente della repubblica (1985): «Un insegnamento armonioso deve poter conciliare l’universalismo inerente al pensiero scientifico ed il relativismo che insegnano le scienze umane, attente alla pluralità dei modi di vita, delle saggezze, delle sensibilità culturali… rompere con la visione etnocentrica dell’umanità che fa dell’Europa l’origine di tutte le scoperte e di tutti i progressi». Quale cataclisma si è verificato nei 90 anni che separano questi due testi? Non uno solo, ma una raffica: due Guerre mondiali, l’avvento dell’antropologia culturale relativista, la decolonizzazione, il terzomondismo.

Guerre demolitrici ed autodemolizione
Sono state le due Guerre mondiali che hanno rimosso l’Europa dal cuore del mondo, che l’hanno annientata materialmente, militarmente e moralmente, che hanno ispirato ai popoli del Terzo mondo la suggestione di un destino diverso da quello che l’apparente solidità degli imperi coloniali faceva presagire, e che soprattutto hanno gettato l’Europa in quella crisi di identità da cui non si è più riavuta. Perché le due Guerre hanno radicalmente contraddetto gli imperativi della “missione civilizzatrice dell’uomo bianco”: portare la pace e la sicurezza dove regnavano le guerre tribali, il diritto dove prevaleva la barbarie dello schiavismo e dei sacrifici umani, il progresso materiale (macchine, medicine, maggiore produzione agricola) là dove dominava l’arretratezza. Guerra, barbarie ed utilizzo genocida delle tecnologie hanno tolto credibilità alla missione dell’Europa nel mondo, ma soprattutto hanno provocato una crisi di autocoscienza da cui gli europei non si sono più ripresi. A formalizzare dal punto di vista culturale l’autodemolizione dell’Europa hanno provveduto i pensatori francesi: Claude Lévi-Strauss (antropologia culturale), Pierre Bourdieu (sociologia), Michel Foucault (filosofia). Sono loro che hanno provveduto a smontare l’idea che esista una natura umana, e con essa dei valori morali, politici ed estetici universali. Esistono, invece, tante umanità quante ne scopre l’antropologia culturale, ciascuna retta da valori e sistemi simbolici autonomi, che riflettono particolarismi e rapporti di forza; esistono forze e strutture di cui l’uomo non è cosciente, e che lo determinano. La Francia, già patria del pensiero forte illuminista, è diventata il principale vettore del pensiero debole. Il pensiero che si rifiuta di pensare, che alla fatica della meditazione e al rigore della riflessione preferisce il calore del concerto rock del 1° maggio in Piazza San Giovanni a Roma, là dove “è l’universo stesso del discorso che è sostituito da quello delle vibrazioni e della danza” (Alain Finkielkraut).

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.