Questa maturità, così com’è, è inutile

Di Roberto Pellegatta
16 Giugno 2014
«Non sono certo gli esami ad essere inutili: è "questo" tipo esame ormai ad esserlo!». Analisi della prova di Stato e delle sue incongruenze. Meglio sarebbe fare come in Germania

Esame di stato a scuola:

1. Servono esami e prove ad adolescenti e giovani? Per Giorgio Chiosso «l’esame non è solo accertamento di sapere o abilità, ma una prova con se stessi, la dimostrazione di saper superare un ostacolo». La diminuzione delle difficoltà da superare limita lo sviluppo della personalità. Le prove sono utili a tutti, ma in modo particolare nella formazione di una personalità. Ma la forma attuale dell’esame di stato, che gli studenti delle superiori iniziano mercoledì, permette di vivere una prova, di mettersi effettivamente alla prova?

Non sono certo gli esami ad essere inutili: è “questo” tipo esame ormai ad esserlo! Un esame che costituisce un doppione accelerato delle verifiche dell’anno, rinviando la verifica delle competenze raggiunte ad altri appuntamenti, universitari o lavorativi.
La consegna di un titolo di studio con “valore legale” è ormai ridotta ad adempimento dovuto in nome del dettato costituzionale e l’esame non è più da tempo l’elemento utile né per una chiara valutazione finale, né per l’ammissione all’università e neppure per raccogliere adeguate informazioni sull’efficacia del nostro sistema scolastico.

Da molti anni gli atenei “snobbano” gli esiti di questo esame, utilizzando invece propri test e cercando semmai valutazioni degli anni precedenti al quinto. Addirittura per alcune facoltà i test vengono ormai fatti prima dello svolgimento dell’esame di stato.
Nei paesi più avanzati, se ci sono gli esami d’ingresso all’università non c’è l’esame finale della scuola secondaria di II grado; se c’è invece un esame di stato (e in questo caso è selettivo) non ci sono test d’accesso all’università. Ne è un esempio il Baccalauréat francese dove negli ultimi anni la percentuale dei promossi sui candidati non raggiungeva mai l’80 per cento.
La situazione quindi da noi è anomala.

2. Nato nel 1923 con la riforma Gentile, l’esame di stato ha visto passare, in quasi un secolo, dal 55 per cento dei promossi della maturità scientifica, alle attuali bocciature ridotte al lumicino dello zero-virgola. Bisogna riconoscere che non lo temono più di tanto i ragazzi e, alla fine, verifica quanto è già stato ampiamente verificato fino a venti giorni prima.
I candidati quest’anno sono 459.474: tolti i non ammessi e aggiunti i privatisti, circa 500 mila. Nel 2013 i bocciati ad esami finiti sono stati lo 0,9 per cento (erano l’1,3 nel 2012). Quelli ammessi all’esame (dopo i mutamenti introdotti dal ministro Giuseppe Fioroni) rappresentano mediamente il 95 per cento. Gli ammessi che hanno superato le prove d’esame sono, appunto, il 99,1 per cento (98,2 in Abruzzo, 99,6 nelle Marche).
In un test sottoposto a cento ragazzi dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, istituto d’eccellenza, soltanto il 27 per cento degli intervistati lo riteneva un’occasione per essere valutati in maniera completa.

Potremmo ripercorrere le cifre dalla riforma Berlinguer ad oggi, ma avremmo uno spostamento di singole unità percentuali, determinato solo dal ripristino del giudizio di ammissione. Ma anche questo, alla fine, non ha modificato la sostanza del problema.
Il risparmio della spesa ha poi costretto a reclutare commissari esterni e presidente dallo stesso comune o distretto della scuola esaminata, con le conseguenze che si possono immaginare.
L’attuale forma d’esame, inoltre, non tiene in nessun conto la diversità dei percorsi di studi (licei, tecnici e professionali) somministrando le stesse tracce per italiano e non prevedendo nella seconda prova la possibilità di un’attività di lavoro sul campo anche per i professionali.
L’attuale sistema di punteggi non è assolutamente in grado di rappresentare la preparazione scolastica di un giovane: un 12 in italiano, un 9 in matematica, un 10 in terza prova, un 20 nel colloquio, equivalgano ad un valore di 51 come prove d’esame, il quale, sommato ad un credito scolastico di 15, porta ad un 66? Ma come è possibile che quel 66 di “preparazione” rappresenti valori così diversi tali per cui, sommarli in un numero, possa significare qualcosa? Forse sarebbe meglio una certificazione con la quale descrivere che cosa uno studente o una studentessa conosce e sa fare.

Infine, in una scuola dove praticamente non esistono quasi più risorse pubbliche per il funzionamento, questo esame di stato costa attorno agli 80 milioni di euro, per promuovere il 99 per cento dei candidati. Non appare ragionevole discutere la proporzione tra questa spesa (ed il tempo investito) e l’obiettivo da raggiungere (ammesso che questo sia chiaro) di una valutazione e selezione in base alle competenze acquisite?

3. A questa sproporzione non basta rispondere sostenendo che in fondo l’esame assegna un punteggio che è pur diversificato, perché questo punteggio non lo utilizza più nessuno, né all’Università, né al lavoro. Questo esame – che pur tanti ragazzi e ragazze vivono come prova di personalità, molti dei quali con convinzione ed impegno personale – non verifica nulla, o al massimo torna a riverificare quello che è già stato verificato durante l’anno.

“Il caso serio” dell’esame di stato come vera prova dovrebbe essere ben altro: verificare se uno studente o una studentessa non solo hanno raggiunte la preparazione necessaria, ma soprattutto se sanno dare una impronta propria a ciò che hanno appreso, se sanno rapportarlo con il reale che li circonda. Forse, proprio a questo scopo, varrebbe la pena valutare seriamente la proposta di abolizione del valore legale del titolo di studio, così che la preparazione di uno studente valga per quello che effettivamente dimostrerà di sapere e saper fare. L’attuale situazione invece maschera realtà diseguali nei fatti, assai differenziati tra scuola e scuola.
Si potrebbe invece far sì che, con la preparazione effettiva ricevuta, lo studente, se lo desidera, si presenta a prove gestite e valutate da un sistema nazionale di valutazione “terzo” rispetto all’Amministrazione e all’istituto scolastico, ai fini di una certificazione credibile per i vari percorsi di inserimento nella vita attiva.

Rivedere le modalità di valutazione conclusiva degli studi delle superiori vuol dire anche rivedere l’impostazione di questi studi. Nessuna delle riforme fatte ha collegato le proprie scelte con l’ordinamento degli studi esistente. Ci sono fuori dall’Italia diversi utili esempi da cui imparare. Dalla Germania si può assumere, ad esempio, proprio il collegamento tra esame e impostazione degli studi. Là, l’esame di stato del secondo ciclo: è un atto interno all’Istituto; è determinato dai voti riportati negli scrutini degli ultimi due anni; valuta, sulla base di standard nazionali, sia elementi generali, ma soprattutto un lavoro di approfondimento personale su discipline scelte dallo studente nell’ultimo anno. Dà quindi notevole spazio ad una conoscenza approfondita nelle materie scelte, chiedendone la presentazione con un saggio annuale o con un progetto multidisciplinare. Nei tecnici e professionali poi sono valutati prove fatte nel lavoro in azienda. In questo modo l’ultimo anno di corso di un liceo o di un istituto tecnico potrebbe dare più spazio a scelte personali dei giovani, ad un lavoro di ricerca ed a una forte relazione con attività laboratoriali, così da spingere formazione e conoscenza a prepararsi ad una prova personale che abbia una qualche relazione con scelte ed interessi futuri.

Roberto Pellegatta, dirigente scolastico DiSAL

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