
Enzo Iacchetti. E non guardate più la tv
Enzo Iacchetti, è un artista, un comico famoso, amato. Probabilmente non sorgerà mai il partito dell’amicizia, ma lui ne sarebbe il testimonial migliore. Perché Enzo Iacchetti è anche un amico. Ci accoglie nella sua casa di Milano pregandoci di non fare caso al disordine e ci racconta che la donna delle pulizie è andata in ferie e che la sostituta dopo una settimana ha deciso di partire anche lei per le vacanze. Ora gli spediscono le cartoline del mare, raccontandogli quanto si stanno divertendo. Appesa ai muri, tra le immagini di alcuni spettacoli, colpisce immediatamente una foto, datata 1995, che lo ritrae assieme a Giorgio Gaber. Non è un caso: da tre anni consecutivi Enzino presenta il Festival Gaber, manifestazione di tributo che la famiglia e gli amici di Giorgio organizzano annualmente a Viareggio. La domanda nasce naturale.
Cosa ha rappresentato artisticamente per te il Signor G?
Il maestro. L’unica scuola che io ho fatto è stata quella di vedere, più che potevo, i suoi spettacoli. Fin dai tempi in cui molti a sinistra lo fischiavano. Ci andavo come spettatore, quasi di nascosto. Mi ha sempre interessato la sua critica concepita dall’interno. Nella realtà in molti non l’hanno capita, sino al punto che, dopo la sua morte, hanno detto che era di destra. Gaber era un artista che voleva capire l’uomo nella sua complessità. Il suo ultimo disco è un testamento eccezionale. Artisticamente l’ho sempre invidiato e da ragazzo gli assomigliavo anche un po’ nelle movenze, poi ho capito che non dovevo imitarlo. Da lui ho imparato il rigore artistico negli spettacoli in teatro. Quest’anno al festival ho fatto un duetto con Rossana Casale su Se io fossi un uomo dove lei cantava e io recitavo. La gente era entusiasta. Tante volte mi viene voglia di sfidare come artista la sua scomparsa. Ogni tanto con presunzione mi dico che forse potrei essere io l’erede, ma evito il paragone perché Gaber è stato troppo grande! Sua figlia mi chiede spesso di raccogliere questa sfida. Mi ha dato addirittura un suo testo inedito, scritto pochi anni prima di morire con Sandro Luporini, però tra un pezzo e l’altro ci sono le sue canzoni e io non me la sento.
Ma lo hai conosciuto?
Sì, la figlia lavorava all’ufficio stampa di Striscia così le ho chiesto di farmi conoscere suo padre. «Vieni dopo lo spettacolo» mi ha detto. Ero titubante, pensavo fosse durissima, che ci fossero una marea di persone attorno, e invece mi ha assicurato: «Stai tranquillo, sono sempre da solo dopo gli spettacoli, i musicisti vanno a mangiare da soli». Ci siamo frequentati un po’, ogni tanto mi telefonava. Lui mi seguiva in tv ma non è mai venuto a un mio spettacolo in teatro. Era interessato alla mia voglia di staccarmi dall’immagine televisiva, però bonariamente mi diceva: «Ma no, falla la tv». Nella realtà la mia voglia è sempre quella di imitarlo anche nelle sue scelte radicali e tante volte mi viene la sua stessa tentazione di mollare tutto. Io però non ce la farei ad avere il suo successo in teatro con un one man show.
Tu hai ricordato che la sinistra a un certo punto ha iniziato a domandarsi se Gaber fosse ancora di sinistra o non lo fosse più. Forse l’errore è stato questo, porre la domanda. Non vedere più l’artista e il bello della sua opera, ma tentare di catalogarlo.
Questo è stato sempre l’errore della sinistra. È sempre stato il nostro problema. Io stesso continuo a dire che non esistono artisti di destra, eppure ci sono. Sarebbe bello prendere da un artista le cose che piacciono e farle proprie se è il caso, oppure semplicemente accogliere la domanda. Il tentativo di catalogare è stato il motivo per cui molti artisti hanno mollato: se la sinistra è un’etichetta che deve farti dire sempre determinate cose, non la vogliono più. Ora però in molti rifuggono dalle classificazioni confluendo in un illogico anarchismo. Dicono “sono anarchico” per evitare di schierarsi. Ma l’anarchia è tutt’altra cosa! Anche Jean Gabin diceva: «Io sono un anarchico borghese». Ma cosa vuol dire? Per me sei un grande attore, poi non me ne frega niente di tutto il resto. Ti stimo e basta. Se poi sei in grado di fare sempre film di grande qualità tanto meglio. Capisco però che ci sono centinaia di motivi per cui un artista può fare anche cose mediocri. Perché ha bisogno di soldi, perché sta vivendo un momento sbagliato o perché deve risalire una china su cui è scivolato troppo in fretta. Insomma, ho imparato a non essere così selettivo. Ad esempio, a me Lino Banfi fa molto ridere e non mi interessa assolutamente niente se è di destra. Non qualifico più le cose da questo punto di vista. Del resto anch’io potrei essere un bel bersaglio in questo senso. Le contraddizioni fanno parte dell’uomo. L’importante è ammetterlo ed evitare, contraddicendosi, di fare danni troppo grossi.
Tu hai vissuto il ’77, una militanza critica schierato a sinistra. Cosa non avresti voluto vedere?
Ci ha rovinato la violenza sulle persone. Quando le Br hanno iniziato a uccidere, ci siamo sentiti tutti in colpa, anche se non c’entravamo nulla. Quasi non riuscivi a di-staccarti perché in quella parola, “Br”, c’era il “rosso”. Lì c’è stato lo squilibrio. Tutto il buono che pensavi del sogno si mischiava inevitabilmente con quanto di terribile stava accadendo. Non capivi l’obiettivo del terrorismo, ma sapevi che era di sinistra. Io, per la prima volta, mi sono sentito coinvolto. Noi continuavamo a pensare che la Dc era colpevole, che Moro faceva parte di quell’ingranaggio, ma ci rendevamo anche conto che il valore di un uomo non può essere annientato con una pistola. Ideologicamente riuscivamo a capire il movimento in Irlanda e quello dei baschi. Militari contro militari. Le Br frastagliavano il sogno.
Cosa ti è rimasto di positivo di quel periodo. Gli amici, i compagni?
No, gli amici di quel periodo sono spariti quasi tutti, ne saranno rimasti due o tre. I compagni invece hanno fatto quasi tutti una brutta fine. Io mi sono tolto dal gioco anche se non disdegno il mio passato e non ho problemi a dire oggi come la penso. Sento di essermi salvato.
Tra amici e compagni quindi salvi gli amici?
Diciamo che ho più amici da salvare che compagni.
Cos’è l’amicizia?
L’amicizia è il sentimento più forte che esista, è l’unico valore rimasto incontaminato. Molto più forte dell’amore. L’amicizia non tradisce. Quando ti tradisce un amico casca il mondo. vuol dire che non era un amico. Una donna ti può tradire per migliaia di ragioni, un amico no. Poi. non essendoci il sesso è fantastico. A un amico puoi dire tutto quello che vuoi, puoi confessare l’inconfessabile. Un amico non va a denunciarti, cerca di guarirti, ti comprende.
Qualche anno fa Smemoranda chiese a molti personaggi dello spettacolo di raccontare il proprio mito. Tutti scrissero di personaggi illustri, tu di un tuo amico. «Stanga – scrivevi – non è nessuno per gli altri, è stato un capo, uno sbandieratore, un lottatore, un semplice postino, è stato molto per me».
Sì, vedi, se in questo momento Stanga mi chiama e mi dice che è in prigione, io non gli chiedo “cosa hai fatto?”, vado a vedere subito dov’è, come sta, se mangia. Faccio il possibile per tirarlo fuori, poi se vuole raccontarmi mi racconta, altrimenti non importa. Non gli chiedo perché. Parto dal presupposto che sicuramente ha ragione. Stanga è stato mio padre, mio fratello, mio figlio, tutto. È la sintesi del concetto dell’amicizia che salverebbe il mondo. Per la mia giovinezza è stato il mito. Tutto ciò che sapevo lo sapevo tramite lui. Ogni libro, ogni disco, me lo passava lui. Poi da giovane, politicamente, era durissimo, intransigente, ma umanamente mi ha dato moltissimo.
Solo con un cane è l’ultimo monologo che hai scritto e interpretato. In quello spettacolo il protagonista si ritrova solo in un appartamento dopo un trasloco. Inizialmente sembra rivolgersi alla propria donna, poi si capisce che la schiavitù che lo opprimeva altro non era che la sua coscienza. Sbarazzatosi di essa si sente libero di dire tutto ciò che pensa veramente. Condizione necessaria però è rimanere chiuso in casa da solo. In pratica cerca la libertà ma trova la sua negazione.
Se vuoi essere libero-finto devi avere una coscienza. Si sa che è uguale per tutti. Come fai a dire “io sono contro la beneficenza?”. Se tu lo scrivi, domani mi odiano tutti. Se uno inizia a dire veramente tutto quello che pensa, sconfiggendo l’ipocrisia, si ritrova con tutto il mondo contro. Ma che senso ha dire tutto quello che penso chiuso in casa? Dovrei dirlo fuori, ma fuori posso dire queste cose solo a degli amici. Allora io pubblicizzo questo sentimento. Faccio il testimonial dell’amicizia. Potrebbe essere un partito, senza segretari, ma con tanti iscritti. E a quel punto non ci sarebbe più bisogno della coscienza.
Tu parli di coscienza ma in realtà ti riferisci a una falsa coscienza.
Sì, se preferisci chiamarla così.
Sempre in teatro hai portato The Producer di Mel Brooks, Provaci ancora Sam di Woody Allen.
Sono tutti ebrei. L’umorismo ebraico è eccezionale. Ti faccio un esempio: Pippo Franco dice «ho un’erezione», Mel Brooks dice «signorina, ho una standing ovation». Capito la differenza? Due modi diversi per dire la stessa cosa ma la qualità è ben diversa. L’umorismo ebraico fa fare uno sforzo intellettivo anche su una cosa stupida, è cibo per coloro a cui piace far funzionare il cervello.
In teatro sei riuscito a farlo, con questi spettacoli. In televisione invece?
È impossibile, non esiste l’umorismo ebraico. La tv è l’opposto del teatro, non paghi niente o perlomeno hai questa percezione. Chi va al teatro a vedere una commedia di Woody Allen sa cosa va a vedere. Se la porti in tv, non la guarda nessuno. Per carità, a me fan ridere anche le commedie all’italiana, ma se penso a uno spettacolo che mi tiene lì seduto sorridendo e mi fa chiedere “ma come ha fatto a scrivere una cosa così intelligente?”, devo andare su quel tipo di commedia che ti dicevo.
Tutti oramai dicono che il livello in tv è basso e che i reality ne sono una dimostrazione. Ma non è che la tv è solo lo specchio della società di massa?
Ma certamente, la grande rivoluzione è non guardare più la tv. E lo dico contro i miei interessi.
Immagina di avere uno spazio tutto tuo in prima serata tv. Cosa fai?
In tv io faccio il comico, l’attore brillante. Ho fatto un varietà tutto mio sulla tv del Canton Ticino. In Italia non è stato approvato da nessun canale. Per carità, non era niente di che. La tv Svizzera mi ha detto: «Bellissimo, facciamolo subito». E questo alla faccia di quelli che dicono che gli svizzeri non sanno ridere, che sono stupidi. Quando l’ho proposto in Italia mi han detto che era troppo sofisticato e per il nostro pubblico bisognava alleggerirlo con qualche pernacchia.
Quali sono i tuoi progetti in tv per il futuro?
Diciamo il solito, Il Mammo su Canale5. Le avventure di un vedovo che ha tre figli di generazioni diverse. Un uomo che lavora e che di sera si ritrova ad affrontare da solo i problemi quotidiani. In qualche maniera cerchiamo di combattere qualche luogo comune. Certo per quanto si può fare in una sit-commedy. Poi ho appena finito di girare uno sceneggiato per la tv Svizzera: Marameo. Una bella storia per quelli che fanno un lavoro che li aliena. Il desiderio di fuga, la voglia di cambiare, di emergere. Insomma è una storia che dà la consapevolezza che cercando dentro de sé le ragioni, si può emergere anche dalla consuetudine, dal grigiore di una vita apparentemente insignificante. E poi a gennaio, per tre mesi, torno a Striscia.
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