
Emilia Pérez, 13 nomination all’Oscar e già Premio Cortocircuito 2025

Emilia Pérez, 13 nomination all’Oscar e già Premio Cortocircuito 2025. Neanche il “Roger the Alien” di American Dad seppe fare migliore parodia delle ossessioni dell’Academy quando s’inventò il film Oscar Gold, storia di un ragazzino ebreo polacco con disabilità intellettiva affetto da alcolismo che durante l’Olocausto si nasconde in una soffitta e trova il coraggio di affrontare la vita grazie all’amicizia con un cagnolino che muore di cancro.
Perché nel caso di Emilia Pérez la realtà ha superato un copione già un bel po’ strampalato: il film è un musical in lingua spagnola prodotto in Francia su un signore della droga messicano transgender e la sua avvocata che lo aiuta a diventare donna, in altre parole una persona migliore.
Emilia Pérez, ennesima “esca per gli Oscar” che è un flop al botteghino
Pura libidine per l’Academy, che già in deliquio sommerse di candidature e premi film come Moonlight (una tragedia su un ragazzino nero, gay, bullizzato che viene salvato da uno spacciatore) o Nomadland (una vedova senza casa che viaggia per il paese in un furgone dopo aver perso il lavoro durante la Grande recessione), o The Artist (film muto francese in bianco e nero su un attore alcolizzato nella Hollywood della Depressione).
The Free Press li mette in fila tutti fino a Coda (film di formazione sulla figlia udente di un pescatore sordo che aspira a diventare una cantante, tre candidature, tre oscar), accomunandoli a Emilia Pérez per il fatto di essere stati realizzati con lo scopo esplicito di fare da “esca per gli Oscar” («il tipo di film che viene fatto con lo scopo esplicito di catturare l’attenzione dei circa 10.000 membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences») e non piacere a nessuno: il film ha già perso 15 milioni di dollari (ne è costati 26) e quando uscì in Messico le richieste di rimborso furono così numerose che fu necessario l’intervento di un’agenzia governativa per la tutela dei consumatori.

Come brigava l’Academy per gli Oscar della diversity
Del resto le regole già preparate dall’Academy nel 2020 per l’assegnazione dell’Oscar nel 2025 parlano chiaro (le riproponiamo spiegate da Repubblica):
«Nelle pellicole candidate come miglior film è indispensabile la presenza almeno di un attore a scelta tra queste categorie: “asiatico, ispanico, nero non americano, afro-americano, nativo-americano, abitante dell’Alaska, mediorientale, nord-africano, hawaiano e un rappresentante delle isole del Pacifico”. Non solo: nei ruoli secondari è indispensabile scritturare, oltre ad un appartenente a un qualunque tipo di minoranza, almeno uno a scelta tra un interprete Lgbtq+ o affetto da disabilità, e gli studios saranno tenuti ad assumere almeno il 30% del loro staff secondo questo stesso criterio, anche per quanto riguarda ad esempio gli uffici marketing. Negli anni che ci separano dal 2024 sarà inoltre necessario esibire, per il momento in maniera confidenziale, un documento che testimonia di aver rispettato gli inclusion standards».
Ora: qui di sposare la tesi di Tfp importa poco (al critic film di Tempi il melodrammone di Jacques Audiard è piaciuto molto, anzi moltissimo), ciò che piace a noialtri sono i suoi già straordinari e ineguagliabili, nella storia di Hollywood, effetti collaterali. Niente è riuscito a sabotare tutto ciò che l’Academy va pianificando e predicando come la nomination a “migliore attrice” del transgender Karla Sofia Gascon, “Carlos” fino all’età di 46 anni quando decise di intraprendere la transizione di genere, e candidata “favorita” all’Oscar.
Gascon, un po’ Trump, un po’ Rosa Parks: «Io, vittima della cancel culture»
Almeno fino al momento in cui la giornalista Sarah Hagi riesumò i suoi tweet del 2020-2021 in cui Gascon se la prende rispettivamente con: la moltiplicazione dei musulmani in Spagna, i burqua, l’islam («focolaio di infezione per l’umanità»), le “religioni” («Sono così stufa di tutta questa merda, dell’islam, del cristianesimo, del cattolicesimo e di tutte le f*e credenze degli idioti che violano i diritti umani»), chiama George Floyd un «truffatore tossicodipendente», attacca e percula i cinesi, tutti virus e involtini primavera.
Ma soprattutto demolisce la cerimonia degli Oscar del 2021 e di Nomadland miglior film, «gli Oscar sembrano sempre più una cerimonia per film indipendenti e di protesta, non sapevo se stavo guardando un festival afro-coreano, una manifestazione di Black Lives Matter o l’8M (8 marzo, ndr)». Morale: nonostante Gascon per difendersi abbia puntato sulla transfobia sistemica, presentandosi su Instagram come «vittima della cancel culture» e alla Cnn come vittima di un caso giudiziario, «condannata, sacrificata, crocifissa e lapidata senza un processo», e del razzismo («Mi sento e mi identifico molto con le persone che sono state buttate giù dagli autobus per il colore della loro pelle, con le persone che non volevano che studiassero all’università», «odiate da tutti per il solo fatto di esistere»), Netflix, che distribuisce Emilia Pérez, ha escluso Gascon dalle attività promozionali legate al film, ha rimosso la sua presenza dai materiali pubblicitari e il regista Audiard non le rivolge più la parola.

Ad Hollywoke nessuno passa il tagliando
La storia di Gascon vanta diversi precedenti all’Oscar, tant’è che, come raccontavamo qui, nessuno smania di presentare la cerimonia della grande Notte. Soprattutto da quando nel 2019, dopo averlo annunciato nel ruolo, il profilo Twitter dell’attore e cabarettista Kevin Hart è stato passato al setaccio fino al rinvenire di battutacce inequivocabilmente omofobe. Vecchie di parecchi anni ma tant’è. L’Academy gli aveva chiesto di scusarsi e Hart aveva deciso di abbandonare gli studi e i posteri con la domanda: chi si considera talmente puro da mettere a repentaglio la propria carriera? Quale account, profilo social, vecchie interviste o parti accettate prima che il woke iniziasse a terrorizzare Hollywood passerebbe il tagliando?
Fino ad oggi la conduzione, uno dei lavori meno desiderati dall’ingloriosa débacle di Letterman, assicurava un biglietto di sola andata per il tritacarne mediatico, eppure Emilia Pérez ha fatto molto, molto di più. Più di quello che ha fatto Trump alle élite liberal che con l’Oscar in mano e i vestiti neri da 20 mila petroldollari ci infliggevano ogni notte degli Oscar gli immancabili pippotti sugli uomini di destra suini, razzisti, maschilisti, omofobi e sessisti.
Transfobia vs razzismo: Emila Pérez manda all’aria i piani dell’Academy
Emilia Pérez, o per lo meno Karla Sofia Gascon è riuscita a mandare all’aria i primi veri attesissimi Oscar per la diversity aprendo l’inevitabile contenzioso: tra allarme transfobia e allarme islamofobia chi vince? E tra allarme transfobia e allarme razzismo? Può un transgender portato in palma dall’Academy verso le statuette rivelarsi una sorta di Proud Boy e può Hollywoke punirlo cancellandolo come Trump tutti gli ordini di Biden o un autista di un autobus far scendere i neri?
Secondo il wokismo il mondo è diviso in oppressori e oppressi: Gascon dovrebbe godere di immunità particolare in quanto «appartenente a una comunità emarginata», ma nell’epoca delle minoranze il cortocircuito è sempre dietro l’angolo e, parafrasando Nenni, “ci sarà sempre uno più oppresso di te a opprimerti”.

«I maori hanno inquinato l’Antartide», «Questo è razzismo!»
A volte premia: nel 2023 Brittney Griner, cestista condannata in Usa per violenza domestica ai danni della consorte Glory Johnson, da cui aveva poi divorziato non senza prima aver avuto una coppia di gemelli, è stata incoronata dal Republic come “Arizoniana dell’anno. Nera, lesbica, ma soprattutto arrestata in Russia per droga vinceva su violenza domestica. Nel 2021 il Time ha incoronato “atleta dell’anno” Simone Biles. Non per le sue doti inarrivabili di ginnasta ma per aver deciso in piene Olimpiadi di Tokyo, di ritirarsi dalle competizioni, sia individuali sia di squadra, perché si sentiva psicologicamente fragile. Anche questo è molto woke. Nel 2020 Sports Illustrated aveva fatto lo stesso con Naomi Osaka: tennista incoronata, insieme ad altri quattro atleti, “sportperson” dell’anno non per i successi ma per il suo attivismo in Black Lives Matter.
Più spesso paternalismo genera paternalismo e non vince nessuno: vi ricordate quando Nature pubblicò la notizia che i primi inquinatori della Terra furono i polinesiani? Un gruppo di scienziati lo aveva scoperto prelevando carote ad alte concentrazioni di residui di carbone nero tra i ghiacci dell’Antartide: l’inquinamento del pianeta non ha avuto inizio con la rivoluzione industriale e nemmeno con i ricchi bianchi europei sfruttatori di terre altrui, bensì sette secoli fa, col fuoco appiccato alle foreste dai colonizzatori maori. In Nuova Zelanda i maori l’avevano presa malissimo: accademici e politici denunciarono l’approccio «affatto inclusivo» e team. Nessun maori era stato infatti interpellato o coinvolto nello studio e ciò era «scioccante» (poco servì al team ricordare che durante la ricerca non si trovavano «indigeni in Antartide»).

«Il green pass è razzista», «l’uniforme gender neutral inquina il pianeta»
E quando ai tempi del distanziamento l’amministrazione Biden ha dovuto gestire lo spinoso caso del green pass accusato di discriminare i neri? Secondo la cofondatrice di Black Lives Matter a New York, Chivona Newsome, impedire ai neri di entrare in un locale pubblico solo perché non erano vaccinati era razzista.
E quando il Regno Unito ha affrontato lo scandalo delle uniformi “gender neutral” (camicia e pantaloni) imposte nelle scuole per «rispettare i ragazzi che sono a un crocevia riguardo alla comprensione del proprio genere»? Protestarono i supporter dei diritti delle donne, quelli dei trans («una vera uniforme di genere neutro consentirebbe ai maschi di indossare le gonne e a entrambi i sessi di indossare i pantaloni», «se un trans volesse mettersi la gonna non potrebbe farlo»), ma soprattutto gli ambientalisti: «Il cambiamento climatico è un problema enorme per i giovani e i regolamenti della scuola non dovrebbero costringere i ragazzi a indulgere alla fast fashion».
Il sessismo di chi chi grida al Nobel sessista. O scoppia di inclusione
Ancora. Quando il Nobel per la pace 2021 andò a Maria Ressa (insieme al collega russo Dmitry Muratov), la giornalista filippina diventò subito la “femmina numero 59”. La tesi del ripresissimo Smithsonian era che il premio fosse sessista, alimentasse la disparità di genere e le disuguaglianze razziali, e che il mondo non era in grado di riconoscere e consacrare il successo delle donne su una lista di quasi mille premi finiti ai maschi. Ressa, giornalista premiata per meriti sul campo, venne ridotta a «una delle pochissime donne ad aver vinto un premio Nobel». Il sessismo di chi grida al sessismo, insomma.
Quanto alle élite culturali, Tempi vi ha raccontato di recente che fine ha fatto la Royal Society of Literature, bicentenaria accademia inglese devastata dall’inclusività: o come l’hanno definita i grandi autori Margaret Atwood, Kazuo Ishiguro, Ian McEwan svendita della libertà di parola. Il corso inaugurato alla fine del 2021 «per rendere la Società meno pallida, stantia e maschile», ossia per «aprirla ad autori di minoranze etniche e categorie sottorappresentate, dagli Lgbtq+ ai disabili», ha finito per ammettere “esordienti” suggeriti “dal pubblico” e non solo.
Quando si è posto il problema di mostrare solidarietà a Salman Rushdie, accoltellato da un fanatico islamico nel 2022, che lottava tra la vita e la morte in ospedale, la dirigenza decise che la cosa poteva «risultare offensiva» e che doveva «rimanere imparziale». «Imparziale rispetto al tentato omicidio?», mandò a dire Rushdie. Pensavamo che da wokeland fosse tutto. Poi è uscito Emilia Pérez.
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