
Memoria popolare
Un’economia «democratica e popolare» per «superare lo sfruttamento capitalistico»

Terza e ultima parte della nostra rilettura delle “tesi per il movimento popolare”, opuscolo diffuso il 21 dicembre 1975 a Milano in occasione della nascita ufficiale del Movimento Popolare. Le uscite precedenti della serie sono reperibili in questa pagina.
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L’ultima parte delle tesi per il movimento popolare pubblicate nel 1975 è dedicata all’economia, ed è interessante notare come accanto a considerazioni oggi anacronistiche, legate alla contingenza del periodo storico, si ritrovino acuti giudizi ancora attuali su fenomeni allora incipienti che poi sono diventati dominanti. Il titolo del punto 8, l’ultimo prima della “Conclusione”, è ambiziosissimo, e riletto oggi suscita immediatamente il sentimento di una sconfitta che non riguarda soltanto il soggetto cattolico in politica: “Per una gestione democratica e popolare dell’economia”.
Si comincia descrivendo la dinamica del sistema economico italiano, quindi si passa all’analisi del rapporto fra economia italiana ed economia internazionale, e infine si propongono “Nuovi modi di gestione dell’economia”.
La Democrazia Cristiana viene criticata non per avere basato lo sviluppo economico del paese su «misure di tipo liberale», indubbiamente necessarie per risollevare l’economia nazionale dopo la guerra, ma per non aver realizzato la seconda auspicata parte del suo programma ideale: «Importanti riforme sociali volte a superare lo sfruttamento capitalistico, assicurando una gestione democratica e popolare dell’economia e contrastando il potere dei monopoli».
La scarsa credibilità dei capitalisti italiani
Lo scenario che il Movimento Popolare descrive vede un sistema economico dove lo Stato è invadente, burocratico e assistenzialista, ma non fa gli interessi dei soggetti popolari e si arrende alla logica del profitto, considerato come «la determinate ultima dei comportamenti economici». L’efficienza è considerata una prerogativa dell’azienda capitalista, a cui è appaltato di fatto l’obiettivo della piena occupazione, che in realtà non può essere conseguita finché l’economia è dominata dallo Stato burocratico e assistenzialista e dalla logica del profitto. Né ci si può fidare delle offerte di “collaborazione” dei capitalisti italiani:
«Il capitale italiano ha sempre avuto in larga misura un carattere arretrato e speculativo, dominato da un intreccio complesso e forse inestricabile di rendita e profitto, ed è proprio questo a rendere scarsamente credibili le profferte di alcuni grandi padroni “illuminati” per una alleanza del salario e del profitto contro la rendita».
L’alba della globalizzazione
I paragrafi dedicati all’economia internazionale descrivono la situazione della metà degli anni Settanta, quando i “paesi sottosviluppati” (dizione allora dominante e presente anche nelle tesi) da una parte organizzavano cartelli come l’Opec per trarre maggiore profitto dalle materie prime di cui erano ricchi, dall’altra cominciavano a dedicarsi a produzioni industriali concorrenziali con quelle italiane. Vengono manifestate preoccupazioni per le conseguenze sui tassi di occupazione italiani di questa ristrutturazione dell’economia mondiale che un quarto di secolo dopo sfocerà nella globalizzazione: «Alla lunga i bassi salari pagati nei paesi di nuova industrializzazione permetteranno loro di avere il sopravvento».
Di fronte a tutto ciò vengono proposti “nuovi modi di gestione dell’economia” squisitamente politici. Viene esaltato «il diritto dei lavoratori ad esercitare una certa misura di controllo sul processo produttivo», che non deve essere confinato a un “diritto di veto” sulla riorganizzazione industriale:
«Occorre che il potere di veto si converta in un potere di iniziativa e di codeterminazione degli indirizzi produttivi e dell’occupazione. […] Questo potere di iniziativa deve coinvolgere le comunità locali e tutte le forme di espressione di soggettività popolari presenti nel paese. Occorre giungere alla determinazione dei bisogni cui l’apparato produttivo deve far fronte e del modo della loro soddisfazione attraverso un dibattito ampio ed articolato, capace di coinvolgere tutte le realtà popolari esistenti».
L’accordo dell’establishment con il Pci
Lette oggi, queste parole suonano ingenue e idealistiche: il mondo è andato in tutt’altra direzione, bisogni, tecnologie e prodotti vengono decisi dalle grandi multinazionali anglosassoni, che si contendono i mercati mondiali con quelle asiatiche, mentre i partiti politici di destra e di sinistra che si alternano al governo nelle democrazie occidentali non propongono nessuna alternativa e si limitano a gestire i costi sociali del sistema dominante.
In realtà l’ingenuità è solo relativa, perché gli estensori delle tesi mostrano di essere consapevoli di quello che succederà se la proposta democratico-popolare non sarà accolta, e di ciò accusano sia i capitalisti che il Partito comunista italiano:
«L’accordo di potere col Pci, ricercato da importanti esponenti del potere economico, serve a perpetuare un modo vecchio di fare politica, evitando ancora una volta di sottoporre a un dibattito democratico opzioni decisive per il futuro del paese. Un simile modo di gestire la crisi non può avere il consenso dei soggetti popolari: esso consolida il potere di una nuova classe dominante che va emergendo, composta dagli esponenti del potere economico e del potere politico intrecciati fra loro, la quale, attraverso il dominio dei mezzi di comunicazione di massa, riesce perfino a creare attorno alle proprie decisioni una apparenza di consenso democratico».
Fronte comune con i paesi ex coloniali
Nella consapevolezza che la partita dell’economia si giocherà sempre più in un contesto globale (come di fatto avverrà soprattutto dopo la fine della Guerra fredda), le tesi propongono di ripensare e riorganizzare i rapporti coi “paesi ex coloniali”:
«Occorre ripensare radicalmente le forme di inserimento del nostro paese nel mercato internazionale, ricercando forme di cooperazione e di collaborazione non imperialistica con i paesi ex coloniali. […] Un lavoro di reale liberazione dei soggetti popolari ha una dimensione mondiale ed implica una solidarietà internazionale con i popoli sfruttati ed oppressi che non è possibile sottovalutare. Per questi motivi il Movimento Popolare ha necessariamente un carattere decisamente antiimperialista».
Un certo tipo di società
La “Conclusione” delle tesi, elencata come punto numero 9, sembra quasi una risposta a chi potrebbe giudicare irrealizzabili le proposte del Movimento Popolare:
«Siamo coscienti che esprimendo tutto questo indichiamo un tipo di società che è quello radicato nella più profonda esperienza popolare; società che un soggetto popolare di cattolici può oggi comprendere e deve proporre agli altri soggetti popolari, ai cattolici e ai non cattolici, con una coscienza e una decisione che manca altrove».
(3. fine)
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