«È la missione che mi ha chiamato al giornalismo». Chi è Bernardo Cervellera

Di Leone Grotti
07 Luglio 2019
Il direttore di AsiaNews racconta come è arrivato a guidare l’agenzia più autorevole su tutto quanto accade in Oriente. E avverte: «L’Occidente sta adottando lo stesso modello repressivo della Cina»

«Si parla tanto della persecuzione dei cristiani in Asia e Medio Oriente, ma in pochi si accorgono che c’è una persecuzione in atto anche da noi. L’Occidente sta adottando lo stesso modello repressivo della Cina». Padre Bernardo Cervellera, 67 anni, è uno dei massimi esperti del Dragone e non esagera. Il sacerdote e missionario del Pontificio istituto missioni estere (Pime) è direttore dell’agenzia di stampa specializzata AsiaNews. Quello che ora è uno dei siti più autorevoli e consultati sull’Asia è nato nel 1986 come un ciclostilato quindicinale da una felice intuizione di padre Piero Gheddo. Il decano dei giornalisti missionari, scomparso nel 2017, è stato il primo ad accorgersi che in Italia l’Asia era un mondo ancora misterioso e che serviva una pubblicazione per far conoscere le missioni nel continente del Pime. Da ciclostilato poco diffuso, AsiaNews è poi diventato un mensile «semplice, senza foto: un vero e proprio zibaldone di notizie». L’approdo online risale invece al 2003. L’assemblea generale del Pime spinse tutti i missionari a cercare nuove forme di evangelizzazione e padre Cervellera avanzò un’idea che allora non era ancora moneta corrente. «Proposi di utilizzare internet per diffondere il Vangelo e così AsiaNews, pur mantenendo la pubblicazione mensile, traslocò online», racconta il direttore a Tempi. Al contrario di molti giornali che si limitano spesso a pubblicare solo le «curiosità esotiche», l’agenzia approfondisce la situazione socio-politica, culturale ed economica dei diversi paesi asiatici, raccontando la vita quotidiana delle minoranze cristiane «per suscitare il desiderio della missione e per raccontare che cosa si nasconde dietro quello che è diventato il motore dell’economia mondiale». E lo fa dall’interno dell’Asia, grazie al lavoro di corrispondenti che utilizzano come faro il discorso del 2003 all’Osce di san Giovanni Paolo II: «La difesa della libertà religiosa è la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani».

Padre Cervellera, è nata prima la tua vocazione di giornalista o di missionario?

Non avevo mai pensato di scrivere in un giornale, tanto meno di farmi prete o missionario. La fede l’ho riscoperta a 18 anni, dopo un periodo di ateismo pratico e di forte impegno politico nel Movimento studentesco.

Come sei approdato al Pime?

La riscoperta della fede è stata così entusiasmante che desideravo dare la vita per diffonderla. Studiavo Filosofia all’università Cattolica di Milano e all’inizio ero affascinato dalla missione laicale dentro il mondo, nel lavoro. Poi don Luigi Giussani ci ha fatto conoscere due missionari del Pime: padre Massimo Cenci e padre Giuliano Frigeni. La loro testimonianza mi colpì moltissimo e cominciai a verificare la possibilità di diventare missionario. Era il 1975. Tre anni dopo sono diventato sacerdote.

Quando sei entrato nel mondo del giornalismo?

Io volevo partire per la Cina, ma i miei superiori mi hanno chiesto di fermarmi in Italia per lavorare alla rivista del Pime Mondo e Missione. Non avevo mai fatto niente del genere, avevo scritto sì e no due articoletti per un giornale locale da giovane. È la missione che mi ha chiamato al giornalismo.

Com’è nata la passione per la Cina?

Mi ha sempre colpito la testimonianza dei missionari del Pime, che erano molto numerosi in Cina, circa 150, e che sono stati cacciati nel 1950 dopo l’avvento al potere di Mao Zedong. Dai loro racconti capii che il popolo cinese soffriva moltissimo per la persecuzione e la dittatura comunista. La Cina è un paese che ha conosciuto due tipi di ateismo.

Quali?

C’è quello più conosciuto, l’ateismo maoista marxista, e poi quello neoconfuciano. Anche il confucianesimo, infatti, guarda all’essere umano come a un oggetto, fissandolo in un ruolo e distruggendo l’individuo. Mi aveva poi sempre affascinato una frase di Henri De Lubac: «Là dove non c’è Dio, non c’è l’uomo». Era esattamente quello che accadeva in Cina: è il paese che ha sofferto più di tutti gli altri per la mancanza di Dio e io volevo portare la sua presenza.

E ci sei riuscito: dal 1989 al 1995 hai prestato servizio a Hong Kong, una delle città più moderne del mondo. C’era posto per Dio?

Allora era già una società molto secolarizzata. Ma io ricordo che, girando la sera per le strade, si vedevano attraverso le finestre aperte degli appartamenti nei palazzi filtrare delle luci rosse: erano gli altarini degli antenati. La secolarizzazione, anche quella più aggressiva, non riesce a cancellare nell’uomo la dimensione religiosa.

Hai poi insegnato dal 1995 al 1997 Storia della civiltà occidentale all’università Beida di Pechino.

La cosa che mi è rimasta più impressa di quella esperienza è la curiosità dei giovani cinesi verso la religione. Anche quelli cresciuti in famiglie sinceramente comuniste volevano sapere che cos’è il Natale o la Pasqua. Non mi sarei mai immaginato di assistere a Pechino a Messe di Natale in chiese piene fino a straripare di cinesi atei, eppure alla ricerca di qualcosa. E questo è molto indicativo.

Di che cosa?

Oggi all’ateismo si è aggiunto in Cina un consumismo fortissimo e la gente è affamata di qualcosa che vada oltre il possesso e dia senso alla vita. C’è un ritorno di Dio in Cina e sta travolgendo tutto. Per questo il regime è così spaventato.

La Cina non è l’unico paese dell’Asia a essere spaventato dalla religione. Come ha detto papa Francesco, oggi la persecuzione dei cristiani è molto più diffusa rispetto ai primi secoli del cristianesimo. Perché?

Ci sono due cespiti di persecuzione in Asia e nel mondo. Il primo è quello del fondamentalismo, alimentato dalla globalizzazione. Questo fenomeno ha causato lo spostamento di enormi masse di persone dalle campagne alle città, cambiando lo stile di vita della gente e mettendo in crisi le religioni tradizionali.

In che modo?

Facciamo l’esempio dell’India. Tradizionalmente, gli indù nei villaggi si recavano al tempio prima e dopo il lavoro nei campi. Nelle grandi metropoli, spesso il tempio si trova distante dal luogo di lavoro, e per molti è diventato impossibile andarci, così la partecipazione religiosa è diminuita. I fondamentalisti hanno incolpato la modernità portata dall’Occidente e siccome in Asia, e non solo, Occidente è sinonimo di cristianesimo, i cristiani vengono incolpati di minare le religioni tradizionali e diventano un bersaglio.

E per quanto riguarda il fondamentalismo islamico?

Al di là dei problemi interni a questa religione, l’equazione nel mondo islamico viene ancora più facile perché i cristiani e gli occidentali sono ancora definiti crociati. Ogni volta che l’Occidente attacca un paese del Medio Oriente i fondamentalisti rispondono attaccando i cristiani. Lo abbiamo visto in Pakistan, Iraq, Siria.

E il secondo cespite di persecuzione?

È la visione assolutista dello Stato. Pensiamo ai paesi comunisti come Corea del Nord, Cina, Vietnam. I governi atei perseguitano i cristiani perché il cristianesimo mette in crisi il loro assolutismo. Il cristianesimo rende l’uomo libero e insegna che la vita dipende da Dio e non dallo Stato e questo per un regime è inconcepibile. Anche se i governi comunisti di oggi non sono più ideologicamente puri, ma sono di fatto capitalismi di Stato, non possono accettare che qualcuno si consideri indipendente da loro.

Quali sono i paesi più preoccupanti dal punto di vista della persecuzione?

Innanzitutto la Corea del Nord, dove si può adorare solo la cosiddetta trinità della famiglia Kim: Kim Il-sung, Kim Jong-il e l’attuale dittatore Kim Jong-un. Basta possedere una Bibbia o un rosario per rischiare di essere uccisi. Poi c’è l’Arabia Saudita, dove l’unica religione ammessa è l’islam e i cristiani non possono pregare né in pubblico, né in privato. Al contrario della Nord Corea, però, i sauditi hanno la fortuna di essere molto amici dell’Occidente, a causa del petrolio, e per questo nessuno si azzarda a criticarli. Infine c’è la Cina.

Qual è la situazione oggi?

In Cina le religioni non sono libere e vengono sottomesse. I nuovi regolamenti approvati nel 2018 soffocano la libertà religiosa e stabiliscono tutto: chi deve celebrare Messa, quando e come deve essere costruita una chiesa, dove vanno messe le statue, quali libri si possono pubblicare, che cosa si può comunicare su internet, eccetera. Il partito vuole decidere persino chi sono i vescovi.

Su questo punto è stato firmato un accordo provvisorio tra Cina e Vaticano.

Sì, ma non è ancora chiaro quali saranno i risultati. L’unica cosa certa è che il partito comunista vuole sottomettere tutte le religioni al proprio volere: questo, in sintesi, è il significato del termine “sinicizzazione”, lanciato dal presidente Xi Jinping nel 2015. Una cosa inaccettabile per i cristiani.

Perché?

Per un cristiano assoluto è solo Dio. Il cristiano può obbedire a un potere politico, anche se malvagio, ma non può considerarlo assoluto.

Quest’anno ricorre il 30esimo anniversario del massacro di Piazza Tienanmen. Perché è importante ricordare la protesta degli studenti oggi?

Fare memoria è fondamentale: Tienanmen ci ricorda che tutti gli Stati e i poteri umani sono fallaci. Tienanmen è la dimostrazione che quando si instaura una teocrazia statale, il governo diventa nemico della società. Inviando l’esercito a uccidere il popolo, però, il partito comunista ha fatto un errore madornale, aprendo gli occhi a migliaia di cinesi.

Secondo un recente documento della Commissione teologica internazionale anche l’Occidente non è più un baluardo nella difesa della libertà religiosa. Si parla apertamente di «totalitarismo morbido»: le nostre democrazie sarebbero sorrette da «una ideologia della neutralità che, di fatto, impone l’emarginazione, se non l’esclusione, dell’espressione religiosa dalla sfera pubblica».

È proprio così. L’Occidente sta adottando lo stesso modello repressivo della Cina. Anche nei nostri paesi le religioni sono libere di esprimersi fino a quando e fino a dove decide lo Stato. In Italia appena un cristiano prova a parlare della famiglia e del matrimonio come unione tra uomo e donna viene accusato di essere un liberticida. Lo Stato lascia spazio alle religioni finché gli fa comodo e per asservirle utilizza un metodo molto particolare.

Quale?

Le guerre di religione. Molte volte in Occidente si pensa che il problema sia rappresentato dai musulmani, ma è lo Stato che non crea le condizioni per la convivenza. Pensiamo a quando qualche Comune si rifiuta di esporre il presepe o cancella il Natale per non offendere i musulmani: mette una religione contro l’altra per farsi poi garante della convivenza di due religioni spogliate della loro identità. La Guerra dei 30 anni ha portato al razionalismo ateo e oggi vedo un trend simile, non so quanto cosciente.

Come influisce questo processo sulla percezione che abbiamo della persecuzione dei cristiani?

Ha due conseguenze. La prima, più evidente, è che non ci interessa più nulla dei nostri fratelli che soffrono in Oriente.

E la seconda conseguenza?

Paradossalmente a volte c’è fin troppo interesse e si sfrutta la persecuzione per fini geopolitici. Chi ha mai protestato per la condizione dei cristiani in Cina? E in Arabia Saudita? Vedo invece che si inizia a parlare molto, e a sproposito, della situazione dei cristiani in Iran, dove i cattolici hanno rapporti abbastanza buoni con il governo. Non vorrei che l’unico obiettivo sia giustificare una prossima guerra degli Stati Uniti contro il regime sciita.

Che cosa possono insegnarci i cristiani dell’Asia?

L’Italia è ormai terra di evangelizzazione e noi cattolici non sappiamo vivere come una minoranza, ma i nostri fratelli orientali sì. La loro esperienza ci insegna tre cose: innanzitutto, ci spinge a riscoprire che solo Gesù salva e rende liberi, dando veramente senso e gioia alla vita. Inoltre, che questa gioia si può e si deve comunicare a tutti attraverso la propria vita. Solo così si può essere missionari. Infine, i cattolici dell’Asia ci insegnano a riscoprire il valore della comunità: solo rimanendo uniti e sostenendosi a vicenda si può mostrare a tutti la bellezza del cristianesimo.

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