E facciamolo rotolare questo benedetto pallone

Di Roberto Perrone
16 Giugno 2020
Hanno trattato il calcio come un club di viziati (molti campioni lo sono, eh). Ma il calcio è un’azienda: c’è Ronaldo, e c’è anche il magazziniere
Cristiano Ronaldo in azione durante una partita Juventus-Napoli

Articolo tratto dal numero di giugno 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Mi hanno fatto perfino diventare sopportabile Claudio Lotito. Simpatico no, è troppo. Cronaca di tre mesi (e forse più) senza calcio, ma con tutto il resto, con il peggio dell’improvvisazione, del qualunquismo, del luogocomunismo che affligge la nostra nazione disastrata. Dell’incompetenza, in sintesi, perché se sul resto il governo va a spanne, sul calcio che è il posto delle fragole dei cazzari, la velocità è doppia.

Quando il pallone ha smesso di rotolare in Italia, il 9 marzo, con Sassuolo-Brescia (3-0), c’era ancora chi pensava positivo. «Andrà tutto bene» la scritta rossa su foglio bianco mostrata da Ciccio Caputo, attaccante del Sassuolo, autore di una doppietta al derelitto Brescia di Mario Balotelli, l’amico di Giorgio Chiellini. Rileggendo gli articoli dell’epoca, ce n’è più d’uno in cui ho letto «il calcio si ferma almeno fino al 3 aprile». Sì, magari.

Mentre scrivo queste «poche, sporche e inutili righe» (copyright Fred Perri), sono ripresi gli allenamenti, ma non tutti a ranghi completi, non tutti allo stesso modo e tutti, soprattutto, senza la certezza che si possa riprendere a giocare, seppur rigorosamente (copyright Claudia Gerini nello spot di una celebre pasta) a porte chiuse e con un protocollo che pare il “sarchiapone” di Walter Chiari: chi lo conosce è bravo.

All’inizio del lockdown (copyright i laureati a Cambridge che siedono sui banchi del Parlamento) ero tra quelli che pensavano che si potesse campare benissimo senza calcio e mi davano sui nervi, tra una sirena e l’altra, i presidenti di certi club e i loro sodali, più o meno stipendiati, che minacciavano ritorsioni in caso di annullamento della stagione.

Poi ho «cambiato più volte casacca» (copyright sempre Montecitorio). Sono transitato con quelli che “il calcio va bene, ma si metta in coda, prima dobbiamo uscire dall’emergenza, prima la salute”, che già di per sé era una banalità sconvolgente e poteva essere applicata a tutta la realtà che vivevamo. Poi, a poco a poco, mi sono schierato con i vietcong della ripresa, mi è venuta una gran voglia di rivedere il pallone rotolare, a porte chiuse, senza baci e abbracci, con esultanze contenute, con i panchinari in maschera e i dirigenti a distanza di sicurezza. Con gli ultrà e i loro comizi fuori dagli stadi. Perfino con i playoff. Comunque calcio.

All’inizio la voglia dei laziali – di sicuro quelli che sono stati sempre sul pezzo – di tornare in campo mi dava sui nervi. Trovavo fuori luogo le esternazioni di Lotito e dei suoi che si portavano avanti con l’immancabile teoria del complotto, secondo cui le potenze demoplucratiche (la solita Juventus, ovviamente, l’Inter non era contemplata) volevano tirare giù l’aquila biancazzurra con ogni mezzo, perché questo è l’anno buono.

Un po’ li capivo e li capisco, eh. Sono occasioni da Giubileo, infatti la Lazio ha vinto l’ultimo titolo nel 2000. Il copione è perfetto: la squadra che gira, completa in ogni reparto, un allenatore “fratello di” che ha reso il più famoso congiunto “fratello di”. La risalita dal baratro. Il 19 ottobre, a metà di Lazio-Atalanta, ottava giornata, i Gasperson Boys stavano sopra 3-0. Finisce 3-3 e dall’inferno si passa dritti in paradiso. Ci credo che vogliono riprendere, non capisco solo l’intervento della contraerea quando ancora i bombardieri nemici non sono all’orizzonte.

Chi rema contro

Ora sto con loro. Non cambio il mio giudizio sui vertici del calcio, dei club, della Lega, della Federazione, del Coni. Sono pessimi. Un esempio. Il caso dei diritti tv. In Germania la Bundesliga si è accordata con Sky e soci un mese prima di riprendere. Qui è sangue e stridore di avvocati. Come si dovrebbe fare per ogni aspetto di questa nostra esistenza strappata dal virus, hanno studiato tutti gli aspetti della vicenda, qualcuno ha mollato di qui, qualcuno di là e sono ripartiti. Qui si va avanti a spanne.

Non sto facendo la solita elegia dell’erba del vicino, sto solo parlando di buon senso. Non si tratta di abolire la povertà-tà-tà, semplicemente di mettersi attorno a un tavolo a sistemare alcune questioni. Niente di tutto questo è stato fatto, anche perché i primi a remare contro stanno a Palazzo Chigi e zone limitrofe. Del resto io, chiuso nel mio bunker milanese, non so ancora se potrò uscire dai confini della Lombardia il 3 di giugno senza essere inseguito dai Vopos o dagli assistenti civici (copyright Francesco Boccia) e andare in Molise o in Umbria – oh, fossero state Abruzzo e Toscana, conosco un sacco di gente – come da linee guida, figuriamoci se sono riusciti a dettare un’agenda al calcio con qualche criterio.

I Five Stars con Giuseppi, al comando veramente – i piddini sono dei palafrenieri, almeno Salvini, tra un mojito al Papeete e un cannoneggiamento alle navi delle Onlus, un po’ li conteneva –, hanno in odio la cultura d’impresa. Odiano le aziende, odiano chi ce l’ha fatta, chi ha il conto in banca a più zeri e non importa come li ha guadagnati. Se ce li ha, c’è l’inghippo. Il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora ha trattato il calcio come un club di viziati (molti lo sono, eh) che truffano il popolo tipo vecchia Roma (panem et circenses).

Non le amo neanche io le esagerazioni, le distorsioni del sistema, gli accrocchi con le plusvalenze, le percentuali ai procuratori, e via così. Tante le storture da correggere. Ma il calcio è un’azienda che dà lavoro a decine di migliaia di persone e non tutti hanno l’aereo privato o la villa a Madeira dove svernare in attesa che la pandemia scenda di intensità. Molti di questi non hanno neanche la prima, di casa. Il governo ha fatto poco per le aziende in genere, dico per tutte le altre, il calcio chiedeva solo un programma, un tavolo di confronto, una data per riprendere.

Il picco di questo periodo grottesco si è avuto quando il ministro Spadafora ha dichiarato: «La Federcalcio può avere anche un piano B: dichiarare chiuso il campionato, come in Francia». Piccolo particolare: i francesi (che, come cantava Paolo Conte ora «si incazzano» e minacciano azioni legali, da una parte, mentre dall’altra falliscono), come gli olandesi, hanno chiuso perché gliel’ha detto il governo. In entrambe le nazioni è stato il governo a mettere nero su bianco: niente competizioni sportive agonistiche, di qualsiasi tipo, fino al primo di settembre. Così hanno chiuso, cosa potevano fare?

I giornalisti te li raccomando

E vi raccomando anche giornali, tv e media in genere. A parte i grandi revival (avrò visto i tempi supplementari di Germania-Italia 0-2 del 2006 circa una cinquantina di volte), a parte le simulazioni di gran premi e giri d’Italia, a parte il calciomercato, che tira sempre anche in tempi di confinamento, hanno trattato il calcio con un distacco australiano come se, in tempi normali, il football sui loro fogli avesse lo stesso spazio di nuoto, cricket e rugby. Non mi risulta che sia così.

Un paio di eccezioni ci sono state, con coraggiosi che hanno sostenuto la ripartenza fin dall’inizio della quarantena. Vedere tanti giornalisti sportivi mettere ostacoli e paletti davanti alla ripresa, come se il football non fosse una passione che ci accomuna, mi è sembrato molto bizzarro (eufemismo). Si tratta solo di cercare, come per un ristorante, un bar o una palestra, il modo più sicuro per ripartire.

Si può vivere senza calcio? Certo, si può vivere anche senza il ristorante. Ma quelli del ristorante tanto bene non camperanno e tutti concorriamo all’equilibrio sociale. Se non capite, vi faccio un disegno. Chi tratta il calcio come il foie gras, cioè uno sfizio per gourmet, è un belinone (copyrigt mio nonno Giuse).

Foto Ansa

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