Dove va l’America

Di Rodolfo Casadei
07 Agosto 2003
Le radici della potenza americana. Psicopatologia dell’antiamericanismo. Ragioni buone e cattive di Usa ed Europa. E tre interviste. E' il nuovo libro di Tempi.

Giuliano Ferrara, David Forte e mons. Lorenzo Albacete, un italiano e due americani, sono i personaggi che abbiamo scelto di intervistare nella sezione conclusiva del libro Quo vadis America? I primi due sono, ciascuno all’interno del suo mondo, due intelligenti apologeti delle decisioni di politica estera degli Stati Uniti negli ultimi due anni – compresa quella, assai controversa, dell’attacco militare contro l’Irak. Il terzo incarna una vigile coscienza critica dei valori e delle contraddizioni dell’esperimento americano. Proponiamo alcuni brani tratti dalle rispettive interviste.

La politica non è utopia
Giuliano Ferrara, il giornale che lei dirige, Il Foglio, ha solidarizzato con la politica estera degli Stati Uniti sia in occasione del loro intervento in Afghanistan che della guerra con l’Irak. Più in generale, sembra non dispiacervi l’idea di una tutela imperiale americana sul nuovo ordine internazionale. è davvero indispensabile questo passaggio? Libertà e democrazia difficilmente si conciliano con una realtà imperiale.

Il Foglio cerca di battersi contro le ipocrisie, specie quando queste hanno uno sfondo ideologico, cioè di falsa coscienza di ciò che si è, e investono la questione cruciale del rango che ha la politica nell’organizzazione della vita umana. (…) Più che solidarizzare con l’Amministrazione Bush o con gli Usa dopo l’11 settembre, abbiamo preso atto e reso conto di quei fatti la cui esistenza gli ipocriti ed i moralisti spensierati fingono di ignorare. In primo luogo (…) gli americani sono coloro che hanno dato il massimo contributo possibile alla riorganizzazione del mondo attraverso le due Guerre mondiali europee in cui sono intervenuti e attraverso la lunga stagione della Guerra Fredda che aveva nell’Europa la sua linea di confine. Quella guerra, quella situazione geo-politica mondiale sono finite nel 1989, e a quattordici anni da quei giorni si pone sempre più problematicamente la questione di un nuovo ordine internazionale. Anche questo gli ipocriti fingono di non vederlo, e sotto il manto di una bella parola – multilateralismo – nascondono tutta la spazzatura ideologica dell’anti-americanismo. Nel senso che il multilateralismo va benissimo, ma deve essere organizzato, e non esitono multilateralismi indipendenti dai fatti: il multilateralismo possibile dipende dai fatti. E se i fatti sono che nel 1979 si afferma la repubblica islamica dell’Iran, dieci anni dopo cade il Muro di Berlino, dodici anni dopo vengono abbattute le Twin Towers, i fatti sono tali per cui i problemi del confronto con l’estremismo islamico, con il terrorismo internazionale, con la proliferazione delle armi di distruzione di massa e con l’instabilità geopolitica mondiale, vanno affrontati. Allora chi ha una linea concreta, vera, seria, si assume delle responsabilità e si espone alle critiche: non è detto che quella linea sia vincente, efficace fino in fondo, certamente si presta a molte controversie e critiche, e non siamo dogmatici. (…) Quindi sentiamo molto forte il tema dell’imperialismo liberale o dell’imperialismo democratico, come lo definiscono alcuni: ci sono molte sottigliezze, a loro modo anche i neo-conservatori sono ideologici, quindi anche lì c’è spazio per false coscienze. Però noi andiamo al sodo, e il punto dirimente è il seguente: la nazione che ha la più antica costituzione democratica scritta, che è alleato in modo stabile, qualunque siano i governi, con la più antica democrazia del mondo, cioè quella britannica; la nazione che fa da traino alla nostra economia ed al nostro modo di vivere, che ha pagato le spese per la sicurezza degli europei per cinquant’anni, che ha contribuito insieme al Papa alla caduta del comunismo in modo decisivo e determinante; questa nazione, questo paese si trova nella condizione di doversi assumere una responsabilità, che parte dal problema della sicurezza e della pace: solo un’espansione della democrazia e dei diritti nel mondo possono garantire la sicurezza e la pace. Sostengono questo in una forma non “carteriana”, non ideologica, ma politico-realistica; loro dicono: «la nostra sicurezza comporta che chi ci sfida deve essere sfidato». Non sempre con le armi, non sempre con le guerre, ma se un problema di guerra nasce, perché la politica di “containment è fallita”, allora bisogna affrontare le conseguenze di questo. La chiave è nei fatti, non nelle idee, nelle bandiere e nei valori. (…) Semplicemente, noi abbiamo raccontato questi fatti e smentito le bugie irenistiche del movimento pacifista ed i tentativi autoconsolatori di chi vive in un mondo che non esiste.

La nazione cristiana che vuole evitare la quarta guerra mondiale
Professor Forte, hanno gli Stati Uniti interesse a ripristinare la relazione transatlantica, scossa dalla crisi irakena? Gli Stati Uniti e l’Europa nel suo insieme hanno oggi gli stessi interessi e la stessa visione della realtà che avevano in comune nel passato?

La relazione transatlantica sarà riparata. I sacrifici fraterni che abbiamo fatto gli uni per gli altri saranno il balsamo che porterà la guarigione. Tuttavia c’è una differenza di punti di vista fra gli Stati Uniti e alcune parti (non tutte) d’Europa. La leadership di paesi come Francia, Belgio e Russia vede nel Medio Oriente soltanto un palcoscenico per manovre diplomatiche. Gli Stati Uniti vedono il Medio Oriente come un’area nel mezzo di un disastro economico e di diritti umani. Gli Stati Uniti cercano di impedire che quell’area del mondo cada nelle mani di un nemico ideologico malvagio della stessa stoffa del nazismo e del comunismo. Cercano di impedire la Quarta guerra mondiale attraverso la creazione di condizioni politiche, economiche e di diritti umani favorevoli alla fioritura della libertà. Alcune nazioni in Europa non comprendono questo punto di vista “ingenuo” dell’America. Ma non c’è niente di ingenuo quando le questioni riguardano terroristi e tiranni. Per di più, la concezione che l’Europa ha della propria democrazia sta cambiando. Essa sta sviluppando uno stato amministrativo che non è partecipativo. La sua unificazione è abilmente e prudentemente prodotta dall’alto. è basata sulla fede in una società politica secolare, materialista ed amministrativa e sfugge al riconoscimento di un qualsiasi debito nei riguardi del cristianesimo. L’America, al contrario, resta una nazione cristiana. Non si può capire la politica estera di George Bush, non si può capire la visione che l’America ha del mondo se non si tiene conto del concetto cristiano della dignità della singola persona umana. (…)

L’America e la speranza
Mons. Albacete, il presidente Bush ha lasciato intendere a più riprese che la guerra contro l’estremismo islamico ha motivazioni non solo politiche attinenti alla sicurezza nazionale, ma religiose. A causa di questi accenti in Europa Bush è stato accusato di strumentalizzare la religione per fini politici non diversamente da quanto ha fatto Saddam Hussein e fece in passato Hitler. Sono genuine o strumentali le motivazioni religiose di Bush?

Credo che nel complesso la dimensione religiosa della politica estera di Bush sia autentica. Essa corrisponde al senso di “missione provvidenziale” che è stato parte dell’esperienza americana sin dal primo inizio, anche se è stato secolarizzato o reso compatibile col pluralismo religioso. Paragonarlo con le posizioni di Saddam e di Hitler è totalmente sbagliato e in realtà moralmente offensivo. Non penso che la dimensione religiosa degli appelli di Saddam Hussein all’islam o del paganesimo di Hitler fosse genuina: si trattava di manipolazioni del senso religioso a scopi di potere. Per il presidente Bush e i molti americani che sostengono le sue politiche, questo senso religioso è costituito dalle categorie cristiane di bene e di male, e ciò ha una forte risonanza nell’anima protestante dell’America. Gli americani non vedono il bisogno di scegliere fra una “politica secolare” e un impegno religioso, perché la maggior parte degli americani è molto disponibile a seguire le implicazioni politiche del proprio impegno religioso attraverso un processo che rispetta il pluralismo religioso. Penso che il presidente Bush e la maggior parte del popolo americano che lo appoggia riconoscano che la “guerra contro il terrorismo” va al di là dei conflitti geo-politici e costituisce una sfida al compromesso americano in materia di religione e politica. (…) Molti affermano che l’attuale situazione (il linguaggio di Bush – ndr) vìola la separazione costituzionale fra religione e politica. Alcuni, invece, stavano cominciando a chiedersi se il potenziale per gli sviluppi attuali non fosse stato già presente sin dall’inizio, e stavano invocando una riconsiderazione del significato del principio della separazione fra Stato e Chiesa. Le loro speranze erano riposte nella nomina di giudici, specialmente alla Corte Suprema, che interpretassero la protezione costituzionale della libertà religiosa in un modo tale che non escludesse totalmente l’introduzione di leggi che riflettessero punti di vista morali motivati da convinzioni religiose. Ora queste persone si trovano di fronte ad una critica radicale della libertà religiosa da parte dell’islam che colpisce al cuore il modo americano di regolare queste faccende, le “regole del gioco” enunciate nella Costituzione.
Di conseguenza molti cristiani americani stanno conducendo una battaglia contro due nemici: il secolarismo radicale e un integralismo religioso non cristiano. Sarà interessante vedere come tutto questo si svilupperà, dal momento che potrebbe portare al più serio dibattito intorno alla religione e alla politica negli Stati Uniti sin dalla fondazione del paese…

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