
Dove sta andando la Bce

Il 30 settembre scorso Christine Lagarde, presidente della Bce, è intervenuta ad una conferenza a Francoforte svolgendo alcune considerazioni preliminari sulla revisione della strategia di politica monetaria della Banca centrale da lei presieduta. Non si tratta quindi della esternazione di una nuova strategia già compiutamente delineata, quanto piuttosto della messa in comune di un lavoro in corso alla ricerca del consenso di tutti i portatori di interesse. Per questo motivo esso suscita in maniera particolare la nostra curiosità: dallo “speech” emergono alcuni lampi di sincerità, che gettano luce su opinioni e fatti ottusamente considerati fino a poco tempo fa incontrovertibili.
Recuperare l’inflazione perduta
Dal 2003 la Bce ha usato una doppia formulazione per stabilire il suo obiettivo principale, definendo la stabilità dei prezzi come un incremento su base annua «al di sotto del 2 per cento», ma puntando ad una inflazione «sotto ma vicina al 2 per cento». In un ambiente a bassa inflazione come è quello in cui viviamo, tale formulazione è percepita da Lagarde come insufficiente. Di conseguenza è necessario allargare l’orizzonte al medio termine, consentendo alla Banca centrale di recuperare l’inflazione perduta, quando si è passato qualche tempo al di sotto degli obiettivi di inflazione. Questo significa che la Bce si sta preparando a permettere all’inflazione di superare il tetto del 2 per cento nel breve periodo al fine di poter registrare tale tasso nella media di un periodo ad esempio di qualche anno? Sarebbe un cambiamento importante, perché consentirebbe di evitare gravi errori commessi nel passato ad esempio da Jean-Claude Trichet, predecessore francese di Mario Draghi dal 2003 al 2011, che aumentò i tassi di interesse al solo accenno di un timido rialzo dei prezzi, gelando così un’iniziale ripresa in atto dopo la crisi del 2008.
Risorse sottoutilizzate
Ma il discorso della Lagarde si fa più interessante nella sua seconda parte, dove cerca di analizzare la relazione fra inflazione ed economia reale. A proposito del rapporto empirico fra disoccupazione e inflazione (curva di Philipps), Lagarde arriva a immaginare che sia piuttosto piatto, cioè nelle attuali circostanze solo una forte diminuzione della disoccupazione potrebbe innescare un aumento dei prezzi. È di conseguenza possibile, secondo Lagarde, che l’ammontare delle risorse sottoutilizzato nell’economia sia più amplio di quanto ipotizzato («economic slack was larger than we thought»). La Commissione europea di Bruxelles non vide nessun sottoutilizzo delle risorse economiche in Italia; arrivò al contrario ad ipotizzare nel 2018 che in Italia fosse necessario mantenere un tasso di disoccupazione del 10 per cento per impedire il sorgere di spinte inflattive! Gli eurocrati di Bruxelles ipotizzavano un output gap positivo dello 0,5 per cento invece che negativo di -0,6 per cento del governo e di -4 per cento secondo stime di analisti indipendenti. Con il concetto di output gap si intende la differenza fra il Pil reale di un paese e il suo Pil potenziale, ovvero quello che sarebbe dato riscontrare in presenza di un pieno utilizzo dei fattori produttivi (lavoro, capitale …). Questi calcoli sbagliati hanno provocato una «sistematica austerità distorsiva», quando c’era invece lo spazio per maggiori investimenti pubblici produttivi ad esempio nelle infrastrutture, nella scuola e sanità. Ai tempi del governo Conte I a guida M5s e Lega la Commissione europea per mano del duo Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici provocò tensioni sui mercati finanziari con danno del corso dei nostri titoli di Stato, minacciando una procedura di infrazione per un deficit programmato di poco superiore al 2 per cento, che poi si rivelò a consuntivo essere di solo l’1,6 per cento. In una lettera del 23 ottobre 2019 a Dombrovskis e Moscovici anche il nuovo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri del governo Conte II si vedeva costretto ad argomentare che l’output gap sarebbe stato più amplio («our estimates indicate that the output gap in 2020 will be wider…»).
Il tasso di incremento dei prezzi
A causa delle numerose e importanti crisi subite dalle economie dei paesi dell’area euro negli ultimi dodici anni, è diventato più difficile secondo Lagarde misurare la distanza fra il livello attuale dell’attività economica e quello potenziale («harder to measure economic activity relative to potential»). È stata la sottostima della distanza che ci separa dalla piena occupazione che ha originato la situazione attuale di deflazione; il tasso di incremento dei prezzi è infatti attualmente negativo. Già l’anno scorso la Banca d’Italia aveva evidenziato in un suo studio che l’incremento della produttività del lavoro stava esercitando conseguenze modeste sulla dinamica dell’occupazione e dei salari (Conti, Guglielmetti e Riggi, “Labour productivity and wageless recovery”, Working Papers, N° 1257, Banca d’Italia). Le imprese hanno preferito forzare i ritmi del lavoro in fabbrica e negli uffici piuttosto che tornare ad assumere lavoratori; hanno altresì preferito ridurre i loro margini piuttosto che trasferire gli aumenti di costi sui prezzi.
Lagarde conclude dicendo che nella situazione attuale le politiche monetaria e fiscale devono rimanere espansive tanto a lungo quanto è necessario («both policies must remain expansionary for as long as necessary»). Rimangono da affrontare compiutamente importanti domande: come definire le politiche in un mondo di alti livelli di debito pubblico forse permanenti («how to set policy in a world of possibly permanently higher levels of public debt»).
Capire dove sta andando la Bce è di fondamentale importanza, poiché essa è l’unica istituzione a livello europeo (indipendente rispetto alla Unione Europea), che sta ponendo in essere dei fatti concretissimi, invece di limitarsi ad esprimere delle pur lodevoli intenzioni.
Foto Ansa
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