
Perché leggiamo compulsivamente le brutte notizie?

È capitato, di nuovo, all’indomani della bomba d’acqua che ha messo in ginocchio le Marche. Dando un’occhiata ai quotidiani come ogni mattina, l’occhio si è fermato sul titolo: «Maltempo, la piena strappa un bimbo dalle braccia della madre». Lo sappiamo, i titoli ci vanno pesante con le parole. Ma più spesso è il peso degli accadimenti a essere insostenibile.
Ho letto l’articolo che documentava il fatto, una valanga d’acqua e fango tanto improvvisa e potente da impedire a una madre di tenersi stretto suo figlio di 8 anni e metterlo in salvo. Erano per strada in mezzo alla furia degli elementi. Come puoi sapere qual è la mossa giusta da fare, se vieni preso alla sprovvista da una forza incontenibile? Le braccia cosa si mettono a fare dopo che non sono riuscite a trattenere un figlio? Sono domande da cui il pensiero fugge a gambe levate, eppure ficco gli occhi dentro queste storie.
Siamo vittime di doomscrolling?
Secondo una certa analisi sarei vittima di una tendenza che si è amplificata con la pandemia. Ha – guarda caso – un nome inglese, doomscrolling. È l’azione di fissarsi a leggere compulsivamente le brutte notizie. Dal 2020 il termine è entrato nell’Oxford Dictionary.
La parola “tendenza” fa venire il latte alle ginocchia. Mette in un unico calderone la moda dilagante di girare in ciabatte, gli orientamenti di voto dei cittadini e certi comportamenti che si giudicano momentanei, proprio come il doomscrolling. Do senz’altro a Cesare quel che è di Cesare, cioè è plausibile il quadro generale delineato dagli psicologi. Siamo un’età ansiogena, guardare in faccia i disastri ci illude di non essere impreparati all’imponderabile. Inoltre gli esperti notano che sono le persone più soggette a depressione a indugiare sui contenuti tragici, per avere una drammatica conferma della loro visione tragica e senza via d’uscita della vita.
Quel «compulsivamente» che appare nella definizione di doomscrolling è il punto dolente. Lo scrolling è un’azione superficiale: si passa da un’informazione all’altra, una bulimia compulsiva di dati e immagini tremendi. È il surrogato di uno sguardo ferito, che s’interroga.
Prima del doomscrolling, il banchetto della cronaca nera
Non appartengo alla squadra di chi guarda il mondo con la lente rosa o solare dell’ottimismo, so che tendo allo sconforto. Eppure supero la tentazione della disperazione facendo qualcosa di più pesante dello scrolling: mi pianto lì, a guardare il lato oscuro dei nostri giorni e non ci passo sopra alla svelta. Per dirla in modo paradossale, grattando sotto la superficie, al buio si vede meglio.
Quello che c’è da grattar via è tutto quel vocio di quarti gradi e criminologi influencer che da molti anni porta fuori strada lo sguardo. Lo distrae anziché concentrarlo. Ben prima della neo-identificata tendenza al doomscrolling, il lauto banchetto della cronaca nera ci ha nutrito, saziato fino al disgusto. «Un nuovo inquietante dettaglio sull’omicidio di Via Poma» e boom di share su tutti i canali. Il plastico della villetta di Cogne. Quei nomi comuni diventati superlativi assoluti di orrore Sara, Yara, Chiara, Meredith.
La necessità della discesa agli inferi ci appartiene
Anche se siamo finiti a scimmiottarla e ridurla a gossip macabro, da sempre la necessità della discesa agli inferi ci appartiene. La coscienza della tragedia appartiene all’umano. I Greci andavano a teatro a vedere la Medea per guardare in faccia l’ipotesi di una madre che uccide i figli, noi siamo arrivati a fare gite organizzate in pullman per vedere da vicino cosa fosse successo nella cantina di Avetrana. Che la logica mediatica dell’intrattenimento ci tratti da impiccioni delle scene del crimine non significa che i crimini o gli eventi funesti siano solo cibo spazzatura per anime morbose.
Sotto le onde agitate del clamore da copertina e titoloni c’è l’oceano profondo del vero: noi non vogliamo giocare all’investigatore che fa elucubrazioni sulle macchie di sangue, sentiamo il bisogno di un vero appuntamento al buio.
“Mistero”, parola da usare solo col permesso di Buzzati
Mistero dovrebbe essere una parola da usare solo col permesso scritto e firmato di Dino Buzzati. La sua voce che si fiondava dentro la cronaca nera di Milano e dell’Italia era capace di immedesimarsi nel metronotte suicida con la coscienza nuda di chi sa che il male corrosivo e vendicativo è dentro ciascuno, il terrore di forze che ci sovrastano e sono imprevedibili è dentro ciascuno. Quello che al buio si vede meglio è la fragilità nel suo profilo amaro, disarmato, impotente.
Buzzati parlava la stessa lingua di Dante che riconobbe di dover scendere all’inferno per poter, poi, rivedere un cielo illuminato dalle stelle. Non c’è altra via, se non la compassione. E la compassione scende giù, non compatisce dal divano digitando emoji di cuori e lacrime su Twitter. Il buio di un altro uomo è il mio, questo richiamo è scritto nel nostro DNA.
Dentro la camera oscura del vivere
Sì, da quando ho letto di quella madre che ha perso suo figlio in mezzo alla bomba d’acqua guardo i miei figli a tavola, o quando sono addormentati, con una stretta allo stomaco. Lo stesso accadde dopo il Mottarone. Tenere il tragico nel campo visivo secca la bocca e toglie il respiro. Ma intuisco che ciò che ora si etichetta come doomscrolling contenga ancora l’eco debole e storpiata di una vera risorsa umana: stare in compagnia dell’umano dentro la camera oscura del vivere.
Dietro le pose morbose, dietro gli atteggiamenti pessimisti, oltre l’etichetta dell’età dell’ansia, il nostro appuntamento col buio è quello di chi – magari inconsapevolmente, magari a tentoni – va a piantarsi in attesa davanti alla tomba di Lazzaro. Ci raccogliamo nell’ombra, lì dove l’illusione del nostro controllo si spacca. Fermi e sinceri fin nel midollo, a chiedere: in questo pantano, verrà qualcuno che ci abbracci tutti interi e ci liberi dai ceppi della morte?
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