
Tagliarsi i capelli per l’Iran nel paese degli hashtag un tanto al chilo

«Il maschio ancestrale a Teheran impone il velo, da noi il femminicidio». Bene tagliarsi i capelli in solidarietà con le donne iraniane, tirarla per i capelli no. Elena Sofia Ricci è rimasta colpita da una foto di una ragazza iraniana in minigonna negli anni Settanta, «vuol dire che allora potevamo vivere come volevamo, eravamo tutte figlie di Mary Quant, anche in Iran, mentre ora tutto questo non è più possibile ed è drammatico».
Sì signora: da 43 anni un regime teocratico guida e controlla la Repubblica nata dalla Rivoluzione islamica; la rivolta delle donne iraniane, scatenata dal barbaro assassinio di Mahsa Amini da parte della polizia morale, è diventata la rivolta conto il regime degli ayatollah; ricchi e poveri, vecchi e giovani, popolo e celebrità, iraniani, turchi, curdi stanno gridando “morte al dittatore” uniti alle donne, le prime e più numerose vittime di sharia e regime islamico. E sono oltre 150 i morti della repressione in pochi giorni.
Iran e parallelismi imbarazzanti
Ma nel paese degli hashtag un tanto al chilo è sempre l’ora dei parallelismi imbarazzanti. Un anno fa modelle e influencer francesi battagliavano sui social con la campagna #HandsOffMyHijab, “giù le mani dl mio hijab”, oggi Juliette Binoche, Marion Cotillard e altre 50 artiste lanciano la campagna #HairForFreedom su Instagram con un video tutto sforbiciate sulle note di Bella Ciao cantata dall’iraniana Gandom.
Ma per attrici e tagliaciocche nostrane il punto non è tanto l’hijab, costato la vita alla giovane curda per averlo “indossato in modo inappropriato”, non lo era nemmeno ai tempi della conversione di Silvia Romano, bensì ricordare che anche «nella nostra Italia evoluta» (sempre Ricci) le donne «combattono le loro battaglie, magari non per un velo messo male, ma per altre ragioni, una gonna più corta, un desiderio di maggiore libertà», mentre «il maschio resiste con tutto se stesso a questo processo di evoluzione, alla rivolta, all’accettazione della parità», «le donne dovrebbero prima di tutto educare meglio i loro figli maschi. E questo non solo in Iran, perché le zone d’ombra esistono anche da noi». Noi così evoluti e col senso delle proporzioni da paragonare la donna dell’Italia repubblicana a quella della teocrazia islamica.
Le figlie italiane di Mary Quant
Nessuno mette in dubbio che le figlie italiane di Mary Quant (la stilista che inventò la minigonna) comprendano perfettamente come viva una donna all’insegna della sharia, del delitto d’onore e degli ayatollah, anzi, «noi in Occidente viviamo una condizione – precisa Licia Colò – privilegiata. Ma ovunque basta un semplice cambiamento di governo ed ecco che quello che pareva cosa acquisita non lo è più, all’improvviso. Ciò che sembrava scontato è perso. Per questo bisogna essere sempre vigili. Da noi in Italia, ad esempio, i femminicidi sono quasi quotidiani e questo ci ricorda che la strada delle donne è lunga, in salita. E spesso, purtroppo, torna indietro».
“Ad esempio l’Italia”, anche qui guai a usare la parola “regime islamico”: «Correrò il rischio di sembrare superficiale: ma non posso lasciare inascoltato un grido di aiuto». Anche Noemi si taglia una ciocca di capelli (e scrive un editoriale) in solidarietà con le donne iraniane: «Ciò che accade in Iran riporta la storia dell’uomo indietro di mille anni. Non mi importa di quello che pensano gli altri, io faccio sentire la mia voce, non sto zitta». Arretratezza, quasi il problema dell’Iran fosse di essere una provincetta di Pakistan o Afghanistan: centinaia di donne hanno raggiunto il Maxxi di Roma o la Triennale di Milano dove è possibile lasciare un ciuffo di capelli che sarà inviato all’ambasciata iraniana.
Hanno seguito l’esempio di Claudia Gerini, Costanza Caracciolo, Belen e altre rispondendo all’appello #IeneDonnaVitaLibertà lanciato dal programma Mediaset, divisione italiana della campagna #HairForFreedom: è un rito, un simbolo, un gesto simbolico, spiegano, contro i soprusi e la mancanza di diritti delle donne. Tutto giusto, sono pazzesche le immagini delle ragazze che si tagliano i capelli in Iran, e soprattutto condivisibile.
La call-to-action perenne svuota le parole di significato
Ma come fai a rivendicare la forza simbolica del taglio di capelli nel paese delle call-to-action per la qualunque, del grido “al lupo!”, “allarme democratico”, del babau fascista ad ogni angolo e copertina? Come fai a rivendicare la forza simbolica del taglio di capelli nel paese del “O ddl Zan o morte”, delle mani alzate su Instagram #diamociunamano, #noncepiutempo, #nonunpassoindietro con l’onnipresente parrocchietta di vip, artisti, scrittori, a parlare di urgenza, emergenza, violenza, morti, vittime dell’omobitransfobia “usciamo dall’oscurantismo”, “non un passo indietro”, i cori dai giornali “conformatevi”, la potenza simbolica dell’uomo incinto sulla copertina dell’Espresso e di Gesù in corteo sui tacchi a spillo?
Come fai a rivendicare la forza simbolica del taglio di capelli nel paese della banalità dell’hashtag che ha sprecato i suoi cancelletti migliori per denunciare il “regime” durante la pandemia, l’allarme “fascismo”, la “deriva autoritaria”, la società illiberale xenofoba, antisemita, omofoba e intollerante che porterà Giorgia Meloni (una donna, appunto) al governo contro la quale fare “#resistenza e #libertà?
Ovunque ci siano i diritti in pericolo (non proprio ovunque, sommossa dei vip contro la conversione a forza delle spose bambine in Pakistan non si è ancora vista), là siamo noi, con i nostri tweet, i flash mob, i video su Instagram, la nostra velocità di retorica col cancelletto, le parole d’ordine buone per tutto, e cioè svuotate di potenza di significato, che fanno di ogni emergenza e rivolta un fascio: resistenza, libertà, emancipazione, perfino maschio ancestrale. Guai a chiamarlo fondamentalismo islamico.
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