
Don Puglisi, il prete ucciso dalla mafia perché non aveva nessun padrino, ma solo un Padre celeste
Articolo tratto dall’Osservatore Romano – Anticipiamo stralci dell’intervento che l’arcivescovo di Monreale tiene il 20 agosto al Meeting di Rimini in occasione della presentazione del libro Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire (Cinisello Balsamo, San Paolo Edizioni, 2013, pagine 210, euro 9,90) dell’arcivescovo Vincenzo Bertolone.
Un sacerdote autentico, antimafia non per un particolare progetto personale, ma in quanto sacerdote; monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, appassionato postulatore della tappa finale della causa di beatificazione, ricostruisce con amore e impegno il pensiero, le opere, il ministero e il cammino di santità di don Pino Puglisi, parroco di Brancaccio, quartiere periferico di Palermo, ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993, giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, e ora beato dal 25 maggio 2013. Il suo è un libro che non si limita a raccontare la storia di don Pino ma è arricchito da profonde venature spirituali e tratteggia la figura di un prete martire: per le parole di Vangelo che pronunciava, per la fede che sottraeva spazi alla criminalità, per le sue opere che sapevano reinventare la speranza. Il volume — afferma nella prefazione il cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo — è un nuovo tassello letterario, con profonde riflessioni bibliche, teologiche e morali. Lo scopo è quello di esplorare «l’identità sacerdotale e l’eroico esercizio delle virtù» di Puglisi, per «indicarle al mondo, con la sincera speranza di elevarle, di dimostrarle, di renderle fruibili nell’uso quotidiano». Dopo una disamina del martirio e della sua tremenda attualità nell’eterna lotte tra il bene e il male, l’autore apre una finestra sull’evoluzione storica del rapporto tra Chiesa e mafia per individuare le prospettive future. La Chiesa siciliana di fronte alla mafia ha trovato difficoltà a elaborare una risposta che superasse il livello dell’etica civile, del comune rimando alla giustizia e alla condanna della violenza che stanno alla base di una società ordinata. È ovvio che questo piano è assolutamente necessario, ma dovrebbe essere altresì ovvio per il cristiano che resta insufficiente, perché non lascia emergere ancora l’originalità del messaggio evangelico.
Negli ultimi due decenni, conseguentemente al crescere di una diffusa coscienza collettiva di rifiuto di forme di tolleranza e di pur tacita e passiva connivenza col fenomeno, è maturata nella Chiesa siciliana una chiara, esplicita e ferma convinzione dell’incompatibilità dell’appartenenza mafiosa con la professione di fede cristiana: il mafioso in forza della stessa appartenenza alla cosca dedita strutturalmente al crimine si pone oggettivamente fuori della comunione ecclesiale. L’atteggiamento pastorale verso i mafiosi va accompagnato dalla esigenza di prevenire i fenomeni criminosi e di aiutare gli stessi mafiosi a pentirsi, a riparare il male fatto e a diventare persone nuove.
Per la maturazione di questa mentalità sono stati importanti gli esempi di tanti cristiani preti e laici impegnati a prevenire e contrastare il fenomeno mafioso e i pronunciamenti episcopali e dello stesso Papa Giovanni Paolo II, che ha contribuito alla interpretazione e alla condanna della mafia a partire dalle tradizionali e originali categorie cristiane. Giovanni Paolo II, nel 1991, in occasione della visita ad limina dei vescovi siciliani, così si esprimeva: «Tale piaga sociale rappresenta una seria minaccia non solo alla società civile, ma anche alla missione della Chiesa, giacché mina dall’interno la coscienza etica e la cultura cristiana del popolo siciliano». Erano anni drammatici. Nel 1992 si era assistito a una serie di delitti culminanti nelle stragi che procurarono la morte ai magistrati Falcone e Borsellino e alle loro scorte. Nel 1993 avvennero anche attentati terroristici a Firenze, a Roma e a Milano che interessarono anche qualche chiesa. A maggio ci fu la visita di Giovanni Paolo II in Sicilia con il suo famoso appello ai mafiosi. L’assassinio di don Pino è maturato in questo contesto di presa di distanza degli esponenti di Cosa Nostra dalla Chiesa.
Il 9 maggio 1993 il Papa tenne la famosa omelia ad Agrigento; si tratta di un appello chiaramente evangelico, di competenza specifica della Chiesa e che giustifica, quindi, l’intervento pastorale. Questa affermazione, che ha molto impressionato tutti i mass-media, è una chiave per comprendere l’atteggiamento di Giovanni Paolo II nei confronti della mafia o, meglio, dei mafiosi. Più e oltre che una condanna del fenomeno mafioso, il Papa lancia un richiamo forte e intenso alla conversione, andando al cuore del problema: ciascun uomo renderà conto del suo operato a Dio, con cui deve necessariamente rapportarsi. È una svolta anche nell’impegno della Chiesa siciliana perché segna il passaggio dalla mera denuncia all’azione più specificamente pastorale.
L’omicidio di Puglisi fa comprendere quanto sia importante una pastorale che esca dagli stereotipi dell’antimafiosità, e si ponga a servizio di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Sono stati necessari, infatti molti anni per comprendere che Puglisi non era un prete antimafia perché non aveva la scorta o non partecipava ad attività pubbliche molto in voga in quegli anni. Puglisi era un normalissimo parroco che proseguiva nella sua azione pastorale anche contro gli avvertimenti e le minacce dei mafiosi, che ebbe prima della sua uccisione. A questa chiara coscienza di radicale incompatibilità tra mafia e vita cristiana e di conseguente rifiuto di ogni compromissione della comunità ecclesiale col fenomeno mafioso, la Chiesa siciliana non può non sentirsi legata. Essa non può tornare indietro su questa via. Tanto più che questo cammino storico della Chiesa siciliana è stato, per così dire, suggellato dalla splendida testimonianza del martirio di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia solo perché fedele al suo ministero. La memoria di questo martirio è impegnativa per la Chiesa siciliana tutta. Il suo «martirio» è venuto a siglare questa stagione di impegno ecclesiale anche se questo sacrificio non va disgiunto e isolato da quello di numerosi altri uomini tra cui alcuni magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine.
Il martirio di don Pino fu conseguenza non ricercata di un’umile volontà quotidiana di seguire il Signore. Don Puglisi non è stato ucciso per un nobile ideale, come tanti che sono morti in questi anni e ai quali va la nostra riconoscenza. I martiri della mafia che qualcuno ha definito “martiri per la giustizia” sono eroi umani che hanno sacrificato la loro vita per combattere questo fenomeno criminale. La mafia ha ucciso don Pino perché la sua logica è incompatibile con quella del Vangelo. È morto per Cristo e con Cristo adesso partecipa della gloria di Dio. La strada che il Signore ha stabilito per lui è passata attraverso le tappe della sua vita, che tutti adesso conosciamo, ultima della quale la sua uccisione per mani mafiose.
Monsignor Bertolone chiarisce tutti gli aspetti che hanno convinto la Congregazione delle Cause dei Santi a riconoscere il martirio in odium fidei, ossia in odio alla fede. Don Puglisi è stato un prete che ha fatto il suo lavoro amministrando i sacramenti. Si è impegnato in tutte le opere di misericordia. Ha predicato anche contro Cosa Nostra, ma questo suo impegno contro il male non è stato la nota prevalente del suo ministero sacerdotale. È dunque contro un sacerdote autentico, contro questo prete “senza aggettivi”, che è esplosa l’avversione dei mafiosi. Lo si deduce dalla struttura mentale e materiale della mafia: i mafiosi, con il loro rito di affiliazione, scelgono di appartenere a un padrino, non al Padre celeste. L’attività sacerdotale di don Pino ha provocato, dunque, un odio criminale, un odium fidei.
L’odio per la fede emerge con chiarezza nel verbale degli interrogatori dei suoi uccisori. Da essi emerge la pericolosità dell’azione di Puglisi, non per il bene che faceva, ma per la minaccia che rappresentava al potere della mafia. La mafia con l’assassinio di don Puglisi ha voluto colpire la Chiesa con un segnale forte, manifestando in questo modo l’ateismo pratico che la contraddistingue, nonostante certe parvenze di religiosità mistificatorie; «non è tanto la Chiesa di Puglisi che è antimafia — scrive Bertolone — ma è la mafia che è antievangelica».
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