Don Chisciotte e Dulcinea, alla ricerca della speranza che non delude

Di Giussani Carmen
21 Luglio 2005
PUBBLICHIAMO IN ANTEPRIMA L'INTRODUZIONE ("1605-2005. QUATTROCENTO ANNI DI NOSTALGIA") ALLA NUOVA EDIZIONE DEL CAPOLAVORO DI CERVANTES CHE VERRA' PRESENTATO AL MEETING

dedicata a don Giussani
«Cercar di negare la forza dell’intima religiosità di Cervantes significa negare una evidenza assoluta»: Alfredo Alvar Ezquerra lo ribadisce nella sua recente biografia dal titolo Cervantes. Genio y libertad, pubblicata in occasione del IV centenario della pubblicazione della Prima Parte del Chisciotte nel 1605. Genio y libertad identificano bene i tratti essenziali dell’autore. Genio nella comprensione dell’umano e genio nella capacità di esprimerlo: «Fu un uomo molto sagace, con una memoria portentosa e una capacità d’osservazione e comprensione delle situazioni più complesse, frutto d’una immensa esperienza che, lungi dal chiuderlo in se stesso, lo mantenne sempre con uno sguardo teso».
Genio e libertà: «Nella biografia le pagine dedicate ai quattro tentativi di fuga dalla cattività algerina, oltre ad ammirarci profondamente per l’audacia di Miguel de Cervantes, risultano estremamente rivelatrici» di una esperienza di libertà: come «lotta infaticabile per ciò che stima». In primo luogo, la liberazione dalla prigionia. Come «assenza di lamento mentre fu prigioniero»: segnale di libertà di spirito di fronte all’avversità del destino. Infine come «magnanimità nella sventura», da cui traspare un vincolo concreto con Dio, che trascende i limiti propri e altrui.
La vita di Cervantes fu segnata dall’avversità – penurie economiche, vita familiare sofferta, ferite di guerra, prigionia ad Algeri, difficoltà matrimoniali -, eppure non rinunciò mai a lottare per la propria vita, dignità e felicità. «Il suo genio, in straordinario contrasto con l’ideale della Modernità, che esalta la capacità di realizzare quel che si desidera, si oppone radicalmente agli ideali della Postmodernità: essa giunge alla negazione cinica d’ogni capacità di volere e di desiderare e, di fronte alla sventura, al fallimento e al dolore – fattori anch’essi costitutivi dell’esperienza umana -, soccombe alla disperazione e, cosa mai successa nella storia dell’umanità, se ne vanta» (le frasi citate sono tratte dall’articolo di Guadalupe Arbona Abascal, Genio y libertad, pubblicato su libertaddigital.com il 12 gennaio 2005, ndr). «All’età di 69 anni, si congeda dalla vita con un addio sereno e grato, che supera persino quello della sua creatura letteraria: “Addio, arguzie; addio, frizzi e lazzi; addio, gioiosi amici; io me ne vo’ morendo e desiderando di rivedervi presto contenti nell’altra vita”» (Alfredo Alvar Ezquerra).

LA COMPARSA DEL CAVALIERE MANCEGO NEL TEATRO DEL MONDO
Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, Cervantes scrive El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha, supremo racconto barocco «irriducibile a formule o tesi», con l’intenzione esplicita di burlarsi dei libri di cavalleria e del loro ideale eroico e galante, decadente, fantasioso e irreale, molto in voga all’epoca. E la lettura dei libri di cavalleria infatti fa perdere il senno a don Chisciotte ed è causa delle sue sventure.
Don Chisciotte è un uomo medioevale che vive nel tardo Rinascimento, avendo la mentalità che caratterizzava la Spagna al tempo dei Re Cattolici. Cervantes utilizza questo anacronismo come un artificio letterario per giudicare la sua epoca ed insieme per incarnare nel personaggio, che chiama «figlio» nel prologo alla Prima Parte, un ideale d’umanità. L’autore plasma questa realtà con grande efficacia all’inizio del racconto, attraverso le armi «appartenute ai suoi avi, che arrugginite e tutte ammuffite, da secoli erano state messe in un angolo e dimenticate» e che don Chisciotte prende come sue. Risuscitando l’ideale medievale, don Chisciotte ne attualizza la mentalità inserendola nel suo tempo e, a mio parere, assumendo una figura che interpreta potentemente la risposta popolare cattolica alla sfida di Lutero.
Agli albori del Quattrocento la mentalità che ha caratterizzato il cristianesimo medioevale inizia un lento e impercettibile processo di dissoluzione, che si insinua nella separazione fra ragione e sentimento in rapporto con il mondo e con il Mistero della salvezza, che culmina con la Modernità che fa del soggetto un punto di vista assoluto: il giudice della realtà. Nel corso di questo processo, fa la sua comparsa sulla scena del mondo un cavaliere che realizzerà la profezia di chi gli diede vita: «Io scommetto che fra non molto tempo non ci sarà taverna, locanda, né osteria o bottega di barbiere, ove non si trovi dipinta la storia delle nostre gesta». Nella vecchia Europa e nel Nuovo Mondo ciò si è realizzato.
Che significato assume tale comparsa e a cosa si deve la sua permanenza nella nostra storia di uomini occidentali, di stirpe cristiana?

LO SPIRITO DI UN POPOLO
Una vita traboccante raggiunge l’autore attraverso l’esperienza del suo popolo. Forse mai un’opera letteraria sintetizza meglio lo spirito di un popolo e le sue profonde radici cristiane. «Cervantes fu, innazitutto, un gran cercatore di linguaggio, di linguaggio vivo, parlato e scritto; [come un abile pescatore] imprigionò in grandi reti un’enorme quantità di lingua che conteneva in sé l’espressione fissata nella mentalità di un popolo. Il suo materiale di lavoro, l’elemento base della sua opera, non è il vocabolo, ma il ritornello, il proverbio, la frase fatta, la battuta, l’aneddoto, il modismo, il luogo comune; la lingua popolare insomma che riflette anche la cultura diffusa nelle Università e nei Seminari d’allora. (…) Cervantes lascia che il linguaggio dei mulattieri e dei baccellieri, dei pastori e dei soldati, delle toghe, dei chincaglieri e dei vagabondi pensino al posto suo. Da questo punto di vista, il Chisciotte diviene una specie di enciclopedia del senso comune spagnolo, racchiusa nella lingua dell’inizio del XVII secolo. Non è la semplicioneria di Sancio né la pazzia di don Chisciotte a stupirci e a lasciarci senza parole nella lettura del libro immortale, ma la stupenda discrezione di entrambi» (Antonio Machado, Las Meditaciones del Quijote, 1915). Così appare il suo popolo. Popolo sano, che ama la vita e manifesta una illimitata simpatia per tutto ciò che è umano: «La mia bellezza vi costringe ad amarmi… [perché] tutto ciò che è bello si fa amare»; libero: «La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini»; sincero, poiché ama la verità – «La storia è qualcosa di sacro, perciò dev’esser veritiera; e dove è la verità ivi è Dio» – e, insieme, la tenerezza e la comprensione, quell’umana tolleranza sanciopanzesca: «Ecco, ora ti scuso, e tu perdonami l’offesa che t’ho arrecato; perché i primi impulsi non è in nostro potere frenarli»; realista verso la condizione umana: «Ognuno è come Dio l’ha fatto, e spesso molto peggio»; «Non c’è poi sì gran differenza tra me e il mio padrone che lui sia lavato con acqua d’angeli e io con lisciva di diavoli»; «Quale grandezza è mai comandare su un grano di senape? [sulla terra]»; amichevole: si può dire che scudiero e padrone formano entrambi il vero e unico protagonista del racconto, mostrando una amicizia indistruttibile, intessuta di ammirazione e sincero affetto, venerazione e lealtà, profonda sensatezza e nobili sentimenti – «Appena Sancio fu partito, don Chisciotte sentì la sua solitudine»; «Sancio che, tra allegro e triste, se ne veniva sul suo asino in cerca del suo padrone, la cui compagnia stimava più che essere governatore di tutte le isole del mondo»; popolo lieto, che sa che «dire cose divertenti e scrivere ciò che dà gusto e piacere è proprio dei grandi ingegni», che parla in modo chiaro e semplice: «Sii breve nei tuoi ragionamenti, perché nessuno è piacevole che sia lungo»; «Parla in maniera piana, semplice, non complicata… e vedrai come ti rende il centuplo».

IL LINGUAGGIO DELLA MISERICORDIA
L’esuberanza cervantina, la cui radice s’inabissa nel mistero di un amore sovrabbondante, porta alla luce un Autore che eccede l’autore. Così Cervantes riflette un linguaggio capace di narrare il mondo con ardore simpatetico e di guardare l’uomo tutto intero, fatto di grandezza e nullità, fatto d’esperienza. Ed è l’unico linguaggio che compone i contrasti dolorosi dell’esser uomo: il linguaggio della misericordia. Noi pensiamo che il linguaggio del Chisciotte sia la misericordia che parla dell’uomo con condiscendenza e mitezza, virilità e tenerezza, tenacia e magnanimità, sfida e fiducia, caritas e amicizia, ardore e pazienza.
Alla lingua castigliana resta legato indissolubilmente questo linguaggio della misericordia nato dalla penna di Miguel de Cervantes. Linguaggio barocco, atto a descrivere un eccesso di vita, di realtà e di sogno, una eccedenza: «Pensa, Sancio, che l’amore non ha riguardi né serba limiti di ragioni nel suo procedere… e quando prende pieno possesso di un’anima, per prima cosa toglie il timore e la vergogna». Più volte don Chisciotte dice a Sancho: «Mostrati sempre pietoso e clemente; perché quantunque gli attributi di Dio siano tutti gli stessi, più risplende e campeggia ai nostri occhi quello della misericordia che quello della giustizia»; «E se dovessi inclinare lo scettro della giustizia sia non con il peso del denaro, ma con quello della misericordia». Ma ancora: «…io ti perdono, con tal che tu ti corregga e d’ora in poi non ti mostri così attaccato all’interesse, ma cerchi di dilatare il cuore, prender coraggio e ravvivare in te la speranza del compimento delle mie promesse che, anche se tarda, non è impossibile».
Ugualmente don Chisciotte parla al Cavalier del Verde Gabbano: «I figli, signore, sono parte delle viscere stesse dei loro genitori; e così si devono amare, buoni o cattivi che siano, come si ama l’anima che ci dà vita». Ugualmente alla corte dei Duchi: «I rimproveri santi e fatti con retta intenzione richiedono ben altro contegno ed altre ragioni: l’avermi redarguito in pubblico e con tanta asprezza ha oltrepassato tutti i limiti delle oneste riprensioni, poiché esse s’appoggiano molto di più sulla comprensione che sulla durezza». Da ultimo, don Chisciotte afferma: «La sua Misericordia è veramente infinita, né i peccati degli uomini la menomano né l’ostacolano!».

L’UOMO RICOMPOSTO IN UN’UNITA’
Il Medioevo aveva raggiunto il suo splendore nel XIII secolo con il pensiero di Tommaso, la poesia di Dante, la pittura di Giotto e la costruzione delle cattedrali, che rappresentano l’opera più espressiva della potente concezione unitaria cristiana. La dissoluzione di tale unità e, in particolare, il protestantesimo (che nel XVI secolo afferma l’irrisolvibile rottura fra il desiderio ideale che muove l’uomo e la sua fragilità, fra la natura – sottoposta al peccato – e la salvezza – rimandata nell’al di là -, fra la libertà e la Grazia) aprono il varco alla Modernità. In questo contesto, la coppia letteraria cervantina, in un certo senso, riconsegna all’uomo la nobiltà perduta.
Le avventure di don Chisciotte si svolgono infatti sotto lo sguardo benevolo del Cielo che parla un linguaggio di misericordia. Così nel corso della lettura non si impone in primo luogo lo sforzo morale del protagonista, né la sua tensione ideale, quanto ciò che li suscita e li attrae, ciò che ristabilisce quella tensione dopo ogni caduta, e a quella tensione concede spessore e profondità. Vale a dire, si impone un Cielo gravido di benevolenza, magnanimo e clemente. In questo senso don Chisciotte attualizza la mentalità cristiana che lo precede, rappresentando l’esperienza umana – tutta intera – ricomposta in unità alla luce della misericordia divina.
Sotto lo sguardo del Padre – che risuona originalmente nello sguardo d’ogni semplice lettore -, lo sforzo risibile dell’uomo che gli merita il nome di “Cavaliere dalla Triste Figura” suscita compiacenza, poiché ciò che prevale è Chi imprime la sua orma ideale nel cuore del cavaliere, «posto che la tua virtù è gratis data». L’uomo si fa faticosamente semplice, veramente morale. Così lo guarda Dio, per bocca di Sancio: «Non ha nulla di briccone. Anzi ha un’anima trasparente, non sa far del male a nessuno, ma piuttosto del bene a tutti, è privo di malizia. Per questa sua semplicità gli voglio bene e non so adattarmi a lasciarlo, per quante stravaganze commetta». Von Balthasar lo segnala acutamente nel suo saggio sul personaggio cervantino, per il prevalere della misericordia. Il contrasto fra sforzo morale e grazia si scioglie nella virtù della semplicità: «Poiché Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, che mai ebbe a mentire, né potè né può mentire, essendo nostro legislatore, disse che il suo giogo è soave e il suo carico leggero, e non ci avrebbe comandato cosa che fosse impossibile a compiersi» (Hans Urs Von Balthasar, Il ridicolo e la grazia, Jaka Book, 1978). Anche Sancio lo esprime: «Son così illetterato che neanche conosco l’alfabeto; ma mi basta tener il Cristus nella memoria per sapermi governare» (II, 42; 359).
Quando don Chisciotte, al colmo dell’impotenza, viene sconfitto dal Cavaliere della Bianca Luna, minacciato di morte e deve dichiarare, secondo i patti, che la dama del vincitore è più bella di Dulcinea, pronuncia queste indimenticabili parole: «Dulcinea del Toboso è la più bella donna del mondo ed io il più sventurato cavaliere della terra; ma non è bene che la mia debolezza offuschi codesta verità. Affondami nel cuore la tua lancia, o cavaliere, e toglimi la vita, poi che mi hai tolto l’onore». Questo passaggio riecheggia la risposta di Pietro narrata al capitolo 21 da san Giovanni: l’apice della moralità non risiede nella coerenza, miracolo realizzato per pura grazia, ma nell’amore suscitato da una Presenza, nell’amore a Cristo. Di tutte le nobiltà sognate nessuna resterà così viva come quella del geniale hidalgo, poiché ci riconsegna tutta intera la nostra nobiltà d’uomini: tensione ideale e sproporzione strutturale possono suonare all’unisono davanti all’Essere che è misericordia. Nessuno può leggere queste pagine così come si scrissero – in castigliano inimitabile – senza sentire l’eco di tale misericordia.

UNA GRANDEZZA STRUGGENTE
Proprio il prevalere della misericordia, imprime nel cuore dell’hidalgo e di me, lettore, la nostalgia di vederne il volto. Nel capitolo 32 della Seconda Parte, il protagonista è interpellato dal Duca circa chi gli abbia sottratto Dulcinea, trasformandola in una rozza contadina: «Mio Dio! E chi è colui che tanto male ha arrecato al mondo?». Al che don Chisciotte risponde: «Incantatori mi hanno perseguitato, mi perseguitano e mi perseguiranno fino a far cadere me e le mie gloriose gesta nel profondo dell’oblio, danneggiandomi e colpendomi là dove sanno che più può farmi danno; perché togliere a un cavaliere errante la sua dama è togliergli la vista dagli occhi, il sole che lo illumina, il sostentamento dell’anima sua. Il cavaliere errante senza la dama è come l’albero senza foglie, l’edificio senza fondamenta, l’ombra senza il corpo che lo produca».
Jorge Luis Borges osserva che le oltre mille pagine del racconto sono state scritte in funzione dell’ultima scena: «Il libro intero è stato scritto per questa scena, per la morte di don Chisciotte» cui attribuisce una “mirabile malinconia” (J. L. Borges, Analisis del ùltimo capìtulo del Quijote, 1956). Ma, se la malinconia sospira per un bene sconosciuto o impossibile, la nostalgia esprime il sentimento di un bene in qualche modo conosciuto ed ora assente, che si desidera ancora, che può ancora venire. In questo senso noi leggiamo l’ultimo capitolo: se questo bene s’avvicina, se il volto della Misericordia si fa prossimo, la ragione può ritornare sul sentiero della verità. Solo così l’uomo rinsavisce, approssimandosi passo dopo passo al suo destino: quello di goderne il volto: «Io la vedrò e tutto sarà soddisfatto».
Don Chisciotte ripropone l’umanità del cristianesimo, ne esalta la nobiltà d’animo e la fierezza morale, e la anela presente, incarnata accanto a sé. La sua grandezza struggente è questa nostalgia dell’Incarnazione. Quattrocento anni di nostalgia segnano la storia della Spagna e della cristianità intera, solcati da questo cavaliere errante che anela un volto.

SIAMO FATTI PER VEDERE UN VOLTO
Forse null’altro come la creazione di Dulcinea lo dimostra. Don Chisciotte vive per lei, da lei riceve vita ed essere, senza di lei non avrebbe forza alcuna, a lei appartiene e tutto compie per maggior gloria sua. «Dulcinea è figlia delle sue opere», è una presenza che non delude, e don Chisciotte la difende con fede cieca. A lei si dirige nel momento della prova, lei invoca, per lei incammina i suoi passi verso il «far del bene a tutti e male a nessuno». A lei consegna la chiave del suo cuore e della sua stessa libertà. Lei è il suo destino: «Per esser suo e di nessun altra, mi gettò la natura nel mondo… io debbo esser di Dulcinea, in un modo o nell’altro, puro, bennato e casto, a dispetto di tutte le potenze maligne della terra» (II, 44; p. 380). Quando la Duchessa si rivolge a don Chisciotte per dirgli che la sua Dulcinea non esiste nel mondo, ma è una dama immaginaria creata dalla sua mente, egli risponde che solo Dio sa se esiste nel mondo una presenza così, corrispondente al cuore umano: «Iddio sa se esiste o no Dulcinea nel mondo, se è immaginaria o non è immaginaria. Non l’ho generata né partorita io la mia signora, sebbene io la contempli quale conviene che sia una dama: bella senza macchia, dignitosa senza alterigia, affettuosa con riservatezza, grata perché cortese, cortese perché educata, e finalmente nobile per stirpe» (II, 32, p. 286).
Dulcinea incarna la somma Bellezza e il sommo Bene, che non è toccato dalla debolezza di chi lo serve, «è colei che merita d’essere signora di tutto l’universo». A chi gli insinua nella Seconda Parte d’esser disamorato di Dulcinea, don Chisciotte risponde che questo non può essere e che senza sforzo alcuno è dolce esserle fedele, vale a dire, che l’esserle fedele corrisponde alla soddisfazione e alla gioia: «Chiunque dica che don Chisciotte della Mancia ha dimenticato o può dimenticare Dulcinea del Toboso. erra lontano dalla verità, poiché né la senza pari Dulcinea del Toboso può essere dimenticata né in don Chisciotte può aver luogo l’oblio: il suo blasone è la costanza e la sua professione è serbarla gioiosamente, senza sforzo alcuno» (II, 59, p. 510).
A lei tributa un amore gratuito: «”Perché hai da sapere che secondo queste nostre costumanze cavalleresche è reputato grande onore che una dama abbia molti cavalieri erranti in suo servigio, senza che i pensieri loro vadano oltre quello di servirla, unicamente per il fatto d’essere chi è, senza sperare altro compenso dei loro molti e onesti desideri se non quello che ella condiscenda ad accettarli per suoi cavalieri”. “Di questa specie d’amore – disse Sancio – io ho sentito predicare che si deve amare Nostro Signore, per sé solo, senza che ci muova speranza di gloria o timore di pena”» (I, 31, p. 326). Dalla Sierra Morena dove si ritira per fare penitenza le scrive: «Trafitto dalla punta dell’assenza.». E deve esistere da qualche parte questa presenza poiché essa è necessaria al vivere, ma essa è sempre lontana dal cavaliere, sempre altrove. Quella coincidenza fra Mistero e segno che la parabola medioevale aveva intessuto fino ad esprimerla nel rapporto fra l’uomo e la donna, vissuto alla luce della fede, è anelata qui come un bene assente.
Al termine delle sue avventure, sconfitto nelle armi, fa ritorno al borgo da cui era partito. Allora Sancio esclama: «O desiata patria, apri le braccia e accogli il figlio tuo don Chisciotte, il quale, se viene vinto dal braccio altrui, viene tuttavia vincitore di se stesso, in vero la vittoria più grande che possa mai desiderarsi». La vittoria su se stessi è la certezza di questo Bene assente che è l’oggetto della speranza cristiana. Don Chisciotte attende come chi sa «che non c’è dolore più grande che ricordare il tempo della Presenza, quand’essa s’è smarrita». Egli non è «niente meno che un uomo» e attende che la Bellezza assuma un volto, per lui: «Per lei io vivo in perpetuo pianto fin quando non la rivedrò nel suo pristino stato». La nostalgia che pervade ogni cuore che legga il Quijote rende sensibile l’attesa di Cristo.

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