
C’è sempre qualcosa di inaudito nel dolore. Lo conferma anche il pomodoro

Aumenta il pressing di un certo acrobatico virtuosismo verbale, quel flusso di testimonianze a favore di microfono in cui una pletora di personaggi a diverso titolo famosi confessa una malattia, un abuso, un dolore, trasformando la prova sofferta in una compagna di strada alla fin fine amabile e di cui essere orgogliosi. È un copione che si ripete con poche varianti e arricchisce il curriculum mediatico di quei personaggi, appuntando al loro petto la medaglia «lo faccio per aiutare chi si troverà nella mia stessa situazione».
Il vip ferito ed esemplare sta sul pulpito a venderci questo surrogato di redenzione in cui persino la parte più intima della sofferenza risulta scomponibile, analizzabile, dicibile e dunque senza più alcuna zona pericolante o cedevole. Sono parole davvero stucchevoli, da spalmare sulle crepe piallando ogni scabrosità con l’illusione di un’illimitata e autoprodotta tenacia, anzi resilienza. Qualcosa sfugge, forse proprio perché il volume di questi racconti è così alto da calpestare un sussurro che manderebbe a monte la parabola semplificata del cado e mi rialzo, le ferite sono i miei punti di luce, eccetera.
Il “suono” inaudito del pomodoro
C’è sempre qualcosa di inaudito nel dolore. A quanto pare lo conferma anche il pomodoro. Recentemente un gruppo di ricercatori dell’Università di Tel Aviv ha captato i suoni prodotti in circostanze specifiche da alcuni tipi di piante. Con l’uso di microfoni ad altissima sensibilità è stato possibile riconoscere che al momento della potatura o in condizioni di siccità il pomodoro emette suoni a frequenze che l’orecchio umano non può percepire, ma che gli scienziati sono stati in grado di decifrare e registrare. Amplificato a dovere, si sente qualcosa come lo scoppio del mais che diventa popcorn.
Dal punto di vista agricolo è utile saper riconoscere questi segnali come supporto alle coltivazioni, ma la versione da fotoromanzo ecologista della scoperta ha sintetizzato il tutto affermando che anche i pomodori piangono. Attribuire emozioni e comportamenti umani a ogni elemento del creato non è un segno di premura per il nostro pianeta come vorrebbero i discorsi ambientalisti più ideologizzati, soprattutto perché trascura l’evidenza che certe mosse fioriscono solo da una coscienza (e Chesterton aggiungerebbe: dovremo aspettare molto prima che un pomodoro si ingegni per ascoltare i nostri pianti).
La salvezza passa dal silenzio della Passione
Però sul piano esclusivamente metaforico ci assomiglia di più l’immagine del pomodoro che emette lamenti impercettibili piuttosto che il grido virale di caduta e rinascita del vip di turno. Lo “scoppio silenzioso” esprime bene quel vuoto che si dilata quando la sofferenza ci pota e ci asseta. C’è un pianto letteralmente inaudito – non udibile – nell’anima di ciascuno di noi, un brandello di dolore che neppure l’ascolto empatico del più sensibile degli amici può percepire. Anche quando urliamo dal male, qualcosa resta muto e dolente dentro. Non è nascosto, perché si fa sentire come l’ustione di una piaga da decubito, ma non è la lingua delle nostre parole che può dirlo e quindi spegnerne il bruciore. Anche quando l’esperienza del patire fa affiorare piccole sorgive di bene, i lembi della ferita restano sconnessi. Sentiamo il bisogno di una guarigione che vada più dentro, più a fondo.
Nessun sofisticato strumento di amplificazione ci arriva. L’unico che ancora abita il recesso più inaudito dietro i nostri ematomi e cicatrici è Gesù, sprofondato nella Passione piangendo lacrime di sangue e restando muto di fronte a ogni microfono di accusa e vituperio. Nessuna spiegazione a edulcorare il sapore del calice amaro. Da quel silenzio che fece spazio e accolse tutte le lacrime che sarebbero state piante fino alla fine del mondo passa la realtà della salvezza, non la carezza di una consolazione passeggera.
Foto Ansa
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