Dolce vita dopo la Brexit. Ma non doveva essere l’Armageddon?

Di Gabriele Carrer
05 Febbraio 2017
Gli annunci della fine del mondo in caso di vittoria del Leave erano «solo storie del terrore». Il Pil del Regno Unito cresce che è una bellezza
epa05746976 The EU and Union Jack flags fly side by side outside the Europa House in Westminster in London, Britain, 24 January 2017. The British government earlier the same day lost its right to trigger Article 50 o the Lisbon treaty without a parliamentary vote, after the Supreme Court announced an 8-3 verdict against the government. EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Ottobre 1987, il Regno Unito era da ormai quattordici anni membro dell’Unione Europea e il primo ministro Margaret Thatcher non aveva ancora pronunciato in quel di Westminster i suoi famosi e perentori tre “no” all’Europa che voleva trasformare il Parlamento europeo nel corpo democratico della Comunità, la Commissione nell’esecutivo e il Consiglio dei ministri nel Senato. Mancavano tre anni a quello scontro tra la Thatcher e il presidente della Commissione europea Jacques Delors.

Di quell’ottobre del 1987 è rimasta impressa a molti cittadini britannici la figura del meteorologo Michael Fish. Una donna telefonò alla Bbc dicendosi preoccupata per aver sentito dell’arrivo di un uragano e Fish sugli schermi televisivi volle tranquillizzare i sudditi di Sua Maestà: «Non c’è alcun uragano in arrivo». Ma ventiquattro ore dopo il sud dell’Inghilterra fu investito dalla Grande Tempesta, il più violento uragano di cui sia abbia memoria sull’isola, che causò diciannove morti.

A circa trent’anni di distanza, nel gennaio che ci siamo appena lasciati alle spalle, il “Michael Fish moment” è stato rievocato da Andrew Haldane, capo economista della Banca d’Inghilterra, che ha ricordato quel noto caso di previsioni sbagliate recitando il mea culpa della sua categoria circa le previsioni catastrofiche sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Haldane si è arreso all’evidenza dei numeri che hanno messo a tacere le profezie dell’Apocalisse sull’isola britannica in caso di addio alla compagnia continentale. Le previsioni sulla Brexit nel 2016, così come gli errori degli economisti quando nel 2008 non riuscirono a prevedere il terremoto finanziario, sono pari a quella rassicurazione del meteorologo Fish. Alla fine, ha commentato Haldane, quelle analisi che annunciavano l’Armageddon erano «solo storie del terrore».

A più di sette mesi dal voto dello scorso 23 giugno che ha sancito la volontà dei sudditi di Elisabetta II di lasciare l’Unione Europea, i dati economici sembrano schiantare gli analisti. Niente grandine né cavallette, niente oscurità né morte dei primogeniti. A fine gennaio, proprio nel giorno in cui il premier Theresa May ha presentato il suo progetto di legge per l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona e dare così il via ai negoziati per la Brexit, l’Ufficio nazionale di statistica di Londra ha pubblicato i dati sulla produzione che raccontano del Regno Unito come il primo paese per crescita tra le economie avanzate nel 2016 (nel quarto trimestre del 2016 ha fatto segnare un +0,6 per cento di Pil), con una disoccupazione in rapido calo.
La crescita sull’intero anno scorso si è attestata al 2 per cento (nel 2015 fu al 2,2), ben al di sopra delle previsioni, anche quelle più ottimistiche, degli analisti e delle istituzioni finanziarie internazionali. «Tutti i principali settori dell’economia sono cresciuti, a dimostrazione della tenuta dell’economia britannica», ha commentato il cancelliere dello scacchiere (il nostro ministro dell’Economia) Philip Hammond.

L’errore di Cameron
Certo, non è possibile escludere pesanti ricadute e duri contraccolpi in futuro. Certo, la sterlina è crollata ma, con economisti e analisti divisi e scottati dall’esperienza della Brexit, non è facile prevederne le conseguenze in un mondo economico così dinamico come quello in cui viviamo. Ma la paura avrebbe dovuto essere l’arma di convincimento di massa della campagna per la permanenza del paese nell’Unione Europea.

Era il famoso Project Fear, il progetto della paura denunciato dai sostenitori della Brexit, secondo i quali attraverso l’allarmismo e le previsioni di pesanti ricadute economiche i fan dell’Unione Europea avrebbero voluto portare gli elettori britannici a mettere la loro croce sul quadratino del Remain. All’allora premier David Cameron e al suo fidato cancelliere George Osborne è infatti mancato il coraggio del cambiamento che ne aveva illuminato la strada nel governo del paese, la forza di imporre un racconto positivo e non limitato alla difesa di uno status quo eurofilo in un paese che con l’Europa ha sempre avuto un rapporto di odio e amore.

Così facendo i Remainers hanno lasciato uno spazio assai prezioso al fronte del Leave, che ha fatto proprio il vento del cambiamento ed è riuscito a conquistare il 51,89 per cento dei voti espressi nelle urne di tutto il Regno Unito raccontando i valori, liberali e non nazionalistici, di apertura e non di chiusura al mondo, che stavano dietro la scelta di lasciare l’Europa. Economisti e sostenitori della permanenza hanno commesso lo stesso errore: sopravvalutare gli effetti di un progetto fondato sull’allarmismo e sottovalutare i cittadini britannici che, isolani e anche per questo assai orgogliosi e sicuri di sé, si sono fatti affascinare da un messaggio semplice e preciso, quello della campagna “Vote Leave, Take Control”, vota per l’uscita e riprendi il controllo del tuo paese.

Tra quelli che si sono convinti a posteriori di aver fatto campagna per il fronte sbagliato c’è il celebre storico scozzese Niall Ferguson, autore di diversi saggi sull’imperialismo e la storia contemporanea del Regno Unito. Grande sostenitore del Remain in campagna elettorale, lo scorso dicembre Ferguson ha chiesto scusa: «Ho sbagliato», ha detto in un intervento al think-tank californiano Milken Institute ammettendo di aver tradito il suo passato euroscettico e thatcheriano e di aver commesso il più grande errore della sua carriera di storico, convinto che i rischi fossero maggiori dei benefici.
Quattro i fallimenti dell’Unione Europea che Ferguson ammette di non essere stato in grado di valutare: l’unione monetaria; la politica estera in Medio Oriente, Nord Africa e Ucraina; le politiche sull’immigrazione; le politiche contro il radicalismo islamico. Ma sbagliò anche, come ha confessato su Twitter, a «difendere in maniera acritica Cameron e Osborne al posto di ascoltare le persone nei pub. Il tema non era il Pil ma l’immigrazione futura».

Le nuove linee di divisione
È l’ammissione di una difesa a prescindere dell’élite e della scarsa frequentazione con le classi medie e basse, come ha sottolineato Fraser Nelson, direttore del settimanale conservatore e pro-Brexit The Spectator, in un commento “di perdono” dello storico. Perché il voto dello scorso giugno ha fatto emergere le lacerazioni crescenti nel substrato della società britannica. Una fotografia nitida di queste divisioni l’ha scattata il magazine progressista New Statesman raccontando di un Regno Unito non più diviso secondo l’appartenenza politica, tra destra e sinistra, bensì secondo determinate nuove direttrici che stanno ridisegnando buona parte del mondo occidentale, come si è visto anche nel caso dell’elezione di Donald Trump alla presidenza statunitense: apertura contro chiusura, città contro campagna, laureati contro non-laureati, bianchi contro non-bianchi, giovani contro vecchi, proprietari contro affittuari.

Verso una “Società Condivisa”?
I primi risultati economici dopo il voto per la Brexit raccontano di un vento del cambiamento che ha toccato le coste britanniche e soffiato in poppa al vascello di Theresa May e dalla sua promessa “Società Condivisa”. La missione del primo ministro è rendere la Brexit un’opportunità per riunire i cittadini nel nome dell’orgoglio di una nazione che, dopo i primi messaggi economici positivi, può tornare a prosperare ed essere guida nel mondo occidentale una volta liberatasi dai vincoli dell’Unione Europea, per utilizzare la retorica della campagna vincente per il Leave.

O anche per rievocare una copertina dello Spectator della campagna per il “no” al referendum del 1975 sulla permanenza del Regno Unito nella Comunità europea e riproposta l’anno scorso nella battaglia per la Brexit, “Out – and into the world”, fuori dall’Ue e nel mondo, con la farfalla dai colori della Union Jack che si libra nell’aria abbandonando una scatola, dalle tinte europee, che la teneva imprigionata.
Gli economisti come il meteorologo Fish: raffiche di ottimismo e intraprendenza dei britannici ampiamente sottovalutate. E così il vento del cambiamento nell’isola è quello che ha sospinto la farfalla e spazzato via, almeno per ora, tutte le previsioni dell’Apocalisse prossima ad abbattersi sul Regno Unito l’istante dopo la vittoria della Brexit.

@GabrieleCarrer

www.fumodilondra.com

Foto Ansa

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