Divorzista? No, matrimonialista

Di Caterina Giojelli
02 Agosto 2007
Più del boom delle separazioni la spaventa chi si sposa alla leggera. Più del gossip la inquietano i giudici che fanno le star. Più che un avvocato la Bernardini De Pace è una toga ribelle

Cinema americano, fine anni 80: «Sei piombata di botto nel più profondo strato di merda fossile uscita dal buco di culo del più stronzo degli ominidi» urla Michael Douglas (alias signor Roses) a Kathleen Turner (alias signora Roses), che lo sta mollando con la complicità di un «bieco, lercio, schifoso» avvocato Thurmond. Tribunale di Milano, 20 giugno 2007: «Ho i paparazzi fuori, facciamo il bacio tra te e il mio avvocato? Ti prego, finto. ti do 2 mila euro», suggerisce Fabrizio Corona a Nina Moric mentre firma (e filma) l’atto di separazione al termine dell’udienza davanti al giudice Anna Maria Gerli. Non c’è traccia dell’autentico rancore dei fittizi coniugi Roses, trasferito vent’anni fa su una pellicola hollywoodiana, nell’ennesima realtà di una coppia-simbolo che si scioglie al sole di mezza estate. Un’accoppiata di bolliti extra-ordinaria? Forse. Ma anche loro finiranno per rimpinguare la prossima indagine Istat sullo stato di crisi delle coppie italiane che, con un aumento record di divorzi e separazioni (+74 e +57 per cento) dal 1995, sembrano aver superato alla grande il tabù dell’atto giuridico spezza-famiglie. Lo ha superato l’Italia, che per numero di scoppiati è seconda solo a Spagna (+183 per cento in 25 anni) e Portogallo (+89). Lo hanno superato i 27 paesi dell’Ue, dove si registra una rottura coniugale ogni 30 secondi e dove, tra il 1990 e il 2005, 13.753.000 fallimenti matrimoniali hanno coinvolto 21 milioni di figli.
La famiglia monogamica rischia di scomparire, avverte l’agenzia Zenit commentando la “Relazione sull’Evoluzione della Famiglia in Europa 2007”, presentata il 9 maggio a Bruxelles. «Sì, ma che dire allora dell’eccesso di spensieratezza con cui oggi si ricorre a una cosa seria come il matrimonio?». A rompere le righe è il cult-avvocato civilista Annamaria Bernardini De Pace, una storia di 17 mila cause di divorzio alle spalle spesso incastrata con la storia delle grandi inchieste giudiziarie italiane e le pagine più glamour dei giornali: «Dalla legalizzazione del divorzio è passato quel tempo che occorre a ogni cambiamento per dirsi epocale. C’è voluto un trentennio perché venisse digerito dalla società e perché le generazioni crescessero con un’idea più pacifica delle separazioni, estremo rimedio a una situazione di vita infelice». Più che il boom di scoppiati per l’avvocato dovrebbe allarmarci piuttosto ciò che le statistiche sottendono: la conferma che negli stessi anni in cui il divorzio stava macinando strada, perdeva terreno fino a scomparire qualcosa di ben più risolutivo del divorzio: la sacralità del matrimonio. «Civile o religioso, a rendere il matrimonio tale dovrebbe essere innanzitutto la sacralità di una scelta: quella del passaggio dall’irresponsabilità giovanile all’assunzione di una responsabilità sociale. Dovrebbe, perché oggi il senso di quest’atto sembra incomprensibile. Ci si sposa sapendo che se va male il rimedio esiste. Una consapevolezza che a lungo andare deresponsabilizza e che, paradossalmente, rende il divorzio l’unica certezza di chi contrae matrimonio. Una volta era diverso, le certezze si cercavano insieme, le si metteva a tema insieme ai sentimenti, e solo dopo veniva tutto il resto. Oggi invece l’incontro avviene su una base di comunicazione limitata all’attrattiva sessuale e nella quale sembra risolversi tutto. Una base che, a mio parere, pesa come un’ipoteca sulla possibilità di costruire un futuro». Anche per questo l’avvocato firmò una paginata di Libero dedicata a Kakà, il calciatore giunto illibato all’altare: «Alla stampa interessa il marcio, il negativo, le Paris Hiton. Quelli come Kakà, portatori degli stessi valori ma non dello stesso cognome, non fanno notizia. Stracciati dal gusto dello scandalo sordido che implementa l’annichilimento delle responsabilità. Io ho scritto di Kakà anche contro questa logica. Perché anche Kakà è un vero scandalo. Un vero scandalo positivo».

Le piazze e i guai del ’68
Parola di una donna tutt’altro che immune dall’occhio voyeurista della stampa. Parola di una madre capace di dichiarare guerra a chicchessia: mamme moderne e manipolatrici (nel suo libro Mamma non m’ama), papa Wojtyla (“reo” di avere chiesto alle donne di perdonare i mariti fedifraghi), siti di assistenza al divorzio («Ne penso tutto il male possibile, il diritto di famiglia non è un diritto “casalingo”») e soprattutto l’ignoranza, «quella di chi scende in piazza a sgolarsi ignorando che il nostro diritto ci fornisce già di tutti gli strumenti per affrontare ciò che si pensa di risolvere con i Dico. Quella di chi invoca sempre nuove leggi, quando il nostro codice abbonda della maggior parte di quelle che servono». Perfino la piazza del Family Day, di cui ha apprezzato «la volontà delle famiglie “tradizionali” di rimettersi in gioco», non esce immune dal suo giudizio: «Troppa chiusura nei confronti delle “nuove” famiglie, che ci sono e ci offrono la geografia di un paese che di tradizionale ha poco».
Bernardini De Pace non è bastian contrario per partito preso. Il suo spirito anarchico e l’andatura controcorrente li aveva sviluppati ben prima che arrivasse il ’68 con i suoi guai. Lei, infatti, la rivoluzione la fece a modo suo, «sposandomi e mettendomi ai fornelli». Quanto ai “sessantottini”, «li riconosci quelli che allora seguirono la corrente: menefreghismo nei confronti dei valori collanti della società, predicare che “ingiustizia è tutto ciò che non va come dico io”. Questa è la vera eredità del ’68: l’ipervalutazione dell’interesse personale sull’interesse sociale». Un’eredità che sta portando la giustizia a fare la stessa fine del matrimonio. «Persi i contorni di valori e istituzioni, tutti pensano di potere fare tutto: i giornalisti si sono messi a fare i giudici e i giudici le star. Manca rigore nel selezionare chi opera nella giustizia, manca severità nell’esame e soprattutto preparazione nelle università. Ognuno deve essere libero di fare quello che vuole, ma non con la toga addosso. E nemmeno con la penna in mano, perché se l’Italia non è ricca di validi giudici o avvocati sembra davvero povera di validi giornalisti o autori televisivi, visto che quelli sembrano basare le loro trasmissioni interamente sulle inchieste giudiziarie. Un’Italia così, dove non funzionano né tempi né organi della giustizia, è davvero ridotta a un grado di civiltà molto basso».

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