
Diventa sempre più rovente il fronte libanese

Il Medio Oriente è ad una svolta: potrebbe accadere nei prossimi venti giorni. La data segnata in rosso nell’agenda di Benjamin Netanyahu è il 10 marzo, l’inizio del Ramadan, il mese sacro musulmano che terminerà il 4 di aprile, sovrapponendosi con la Pasqua cattolica. Entro l’inizio del Ramadan, il premier israeliano vuole chiudere, in un modo o nell’altro, la questione ostaggi. Le famiglie premono, si annuncia un altro sabato di manifestazioni: un gruppo di parenti insiste che si riaprano le trattative.
«Vorrei vedere se ci fosse qualcuno dei vostri», ha gridato Ali Albag, padre di una ragazza di 18 anni, prigioniera di Hamas, rivolto al leader degli ultranazionalisti Bezalel Smotrich, che ha dichiarato che la liberazione degli ostaggi non è prioritaria rispetto alla distruzione di Hamas: «Quando avrete qualcuno di veramente caro là sotto, nei tunnel di Gaza, potrete parlare». La dichiarazione di Smotrich ha suscitato le ire dell’opposizione guidata dall’ex premier liberale Yair Lapid. Teme che che Netanyahu abbia sì a cuore la sorte dei prigionieri di Hamas, ma non al punto da fermare l’offensiva di terra.
In fuga con quattro figli
Il premier israeliano sta trattando con l’Egitto perché apra le porte ai profughi palestinesi, ma il campo allestito oltre il valico di Rafah non conterrà più di centomila persone e ce ne sono almeno un milione e mezzo nella tendopoli. Da Gaza arrivano le voci di quanti riescono a comunicare: «Ci stiamo spostando ancora una volta verso la spiaggia, cercando una zona meno esposta ai bombardamenti, senza edifici che possano rappresentare un obiettivo», dice Nabil. Nabil è profugo da Gaza con la famiglia, moglie e quattro figli; si sono spostati quattro volte dall’inizio della guerra fuggendo dai bombardamenti.
Ci vorranno settimane per allestire il minimo necessario al supporto umanitario; nel frattempo continuano i combattimenti pochi chilometri più a Nord, a Khan Younis, dove sono ancora operativi i battaglioni superstiti di Hamas. Il timore di Israele è che Yahya Sinwar, l’ideatore del massacro del 7ottobre, possa fuggire o sia fuggito in Egitto portando una dozzina di ostaggi, come ipotizza il giornale il lingua araba Elaph. È un’ipotesi ma basta a far rabbrividire i servizi israeliani. L’esercito dice di «non avere informazioni»: una formula usata per far capire che la notizia viene smentita, senza dichiarazioni ufficiali.

La Spianata delle moschee
Netanyahu risponde alle critiche: «Chi chiede di fermarci per una trattativa vuole la sconfitta. Non pensiamo nemmeno a fermarci fino alla fine del Ramadan. Volete che Hamas si rafforzi, si riorganizzi e uccida i nostri soldati? Per portare a casa gli ostaggi l’unica soluzione è aumentare la pressione su Hamas».
Fonti Usa escludono che la guerra a Rafah possa iniziare prima del Ramadan. È quella la data limite. Ma invano il presidente Joe Biden chiede che sia escluso un intervento prima della fine della liberazione degli ostaggi e, per quanto possibile, della messa in sicurezza dei profughi. Il Ramadan aggiunge un altro motivo di grave tensione: Smotrich e il suo alleato estremista Itamar Ben Gvir chiedono di limitare l’accesso alla Spianata delle moschee anche agli arabi con passaporto israeliano, che sono cittadini israeliani a tutti gli effetti. La spianata è la miccia che potrebbe far detonare un nuovo tipo di guerra: non Hamas contro Israele, ma musulmani contro ebrei. Lo ha detto al gabinetto di guerra Ronan Bar, capo del servizio segreto interno, lo Shin Bet. Non a caso, l’attacco dei terroristi il 7 ottobre fu chiamato proprio Al Aqsa Flood, alluvione di Al Aqsa, il nome arabo della spianata.
Al confine col Libano
In queste ore sale la tensione al Nord, al confine con il Libano ed oltre. Israele spinge i suoi raid aerei ben oltre la zona di cinque chilometri entro la quale, attraverso un patto non scritto non sempre rispettato, ha limitato le azioni di guerra. Una zona entro la quale si considera che il conflitto è, in qualche modo, “contenuto”. Invece gli aerei israeliani hanno colpito a Sidone, quaranta chilometri più a Nord, delle postazioni militari di Hezbollah. Dal Libano rispondono: erano fabbriche civili, avete uccisi anche bambini. Le cifre, come sempre, sono incontrollabili.
Ora si teme che i tank passino il confine sparando sulle case dei villaggi dove si nascondono i miliziani di Hezbollah, così come accadde nel 2006, quando l’artiglieria sparò ad alzo zero, a distanza ravvicinata, e gli aerei disseminarono i campi di bombe a grappolo. Sono ordigni micidiali per i civili, soprattutto i bambini: piccole sfere che sprofondano nella terra rossa, argillosa, morbida delle vigne, rimanendo silenti, ma attive per anni.
L’Iran ha ammonito Hezbollah a non alzare la tensione per non dare pretesti ad Israele di invadere il sud del Libano, così dicono i diplomatici nei conciliaboli di Parigi dove continuano le trattative tra Usa, Francia, Arabia Saudita, Qatar ed Egitto. Intanto al Cairo arriva Ismail Haniyeh, il capo politico di Hamas che vive in Qatar. La diplomazia parla con parole prudenti, sussurrate, mentre la guerra urla.
Missili cioè messaggi
Il rumore delle artiglierie e delle contraerea è sempre più forte sul fronte libanese. Sia primo ministro israeliano Netanyahu che il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ammettono che la situazione tende all’escalation. In Israele sono piovuti razzi di potenza maggiore a quelli utilizzati finora dalla milizia filo iraniana. L’attacco con l’uso di nuovi missili alla base israeliana di Safed, in cui è stata uccisa una soldatessa, non è stato ufficialmente rivendicato da Hezbollah: fatto che viene visto come un segnale minaccioso, ma che non chiude del tutto ad una possibile trattativa. Hezbollah avrebbe voluto inviare un avvertimento agli israeliani.
Questo scambio di messaggi attraverso le armi utilizzate è un linguaggio che entrambi comprendono alla perfezione e che in passato ha funzionato: la guerra funziona anche così. Hezbollah non vorrebbe riconoscere di aver utilizzato un nuovo tipo di missili contro Safad per dire agli israeliani: avete visto cosa possiamo fare, ma per il momento ci fermiamo qui, non andate oltre la portata dei vostri attacchi contro il Libano.
La crisi economica libanese
A Monaco si sono incontrati il primo ministro uscente Nagib Mikati e l’inviato americano per il Libano Amos Hochstein, che due anni fa condusse la trattiva tra Libano e Israele per lo sfruttamento del petrolio nel Mediterraneo orientale: un accordo che sembrava aprire ben più ampi spiragli di pace. Il 7 ottobre ha cancellato molte speranze: il consorzio composto da Total Energies, Eni e Qatar Energy non ha firmato in tempo i contratti per l’esplorazione e lo sfruttamento dei blocchi 8 e 10 della Zona di esplorazione libanese e non ha chiesto proroghe. Il governo libanese si trova oggi di fronte a due possibilità: prolungare la scadenza o lanciare un nuovo bando di gara. È chiaro che ciò è legato all’evoluzione della situazione nel sud del Libano e all’attesa di un cessate il fuoco. Ciò conferma che tutte le questioni politiche, militari ed economiche sono interdipendenti e richiedono una soluzione globale.
Soluzione che lo stesso Hochstein ha così prospettato: «Dovremo fare molto per sostenere l’esercito libanese e ricostruire l’economia del sud del Libano. Questo richiederà un sostegno internazionale da parte degli europei così come degli Stati del Golfo, e spero che ci forniranno questo sostegno nelle prossime fasi». Queste parole contengono molte indicazioni, soprattutto per quanto riguarda l’enfasi sull’economia e sul sostegno all’esercito, oltre al chiaro riferimento agli europei e ai Paesi del Golfo. Anche Germania e Italia, a quando si apprende, stanno muovendosi per agevolare una sia pur parziale soluzione.
La crisi economica aggiunge nuove drammatiche prospettive umanitarie. Il Libano ha un milione e ottocentomila profughi siriani al Nord, centomila libanesi fuggiti dal sud, due milioni di palestinesi nei campi di Tiro e Sidone. L’economia non esiste se non per le rimesse dall’estero, banche chiuse, la lira libanese è carta straccia. La popolazione residente non supera i cinque milioni, non si fa un referendum dal secolo scorso per non incrinare il fragilissimo patto di convivenza tra le 18 confessioni religiose. Non c’è accordo su presidenza e governo che potrebbero formulare un piano per richiedere aiuti internazionali.
Le difficoltà economiche israeliane
Anche l’economia di Israele risente della crisi. La popolazione teme una guerra totale e percepisce che il sostegno internazionale si fa sempre più debole. Il quotidiano Israel Today ha riferito che, dopo il discorso di Nasrallah in cui ha detto che i missili di Hezbollah potrebbero raggiungere Eilat, c’è stato un aumento del 287 per cento dell’acquisto di attrezzature di emergenza come lanterne elettriche, batterie, caricabatterie e generatori. Nello stesso periodo, i consumi privati sono diminuiti del 27 per cento su base trimestrale, a causa del calo della domanda e della fiducia dei consumatori nel primo periodo della guerra. Le esportazioni sono scese del 18 per cento, mentre le importazioni sono crollate del 42. Le Forze armate hanno richiamato 300 mila riservisti, che hanno quindi lasciato il lavoro. Inoltre i palestinesi non possono più andare a lavorare nello Stato ebraico, cosa che sta colpendo in particolare il settore delle costruzioni.
L’impatto della guerra sull’economia israeliana è stato molto più grave del previsto, commenta Liam Peach, senior emerging markets economist di Capital Economics. «Il prodotto interno lordo del Paese è crollato del 19,4 per cento su base annuale nel quarto trimestre, secondo quanto riferito dall’Ufficio centrale di Statistica israeliano». Dati più che allarmanti: la guerra ha fatto perdere all’economia quel poco che era stato recuperato dopo il disastro del Covid. Anche questo pesa sulla bilancia delle decisioni del governo.
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