Di nuovo in piazza

Quando il 23 ottobre 2006 Budapest viene messa a ferro e fuoco da manifestanti e violente cariche della polizia come non se ne vedevano dai tempi bui, la mente torna a cinquant’anni prima, agli albori di quella rivoluzione contro il regime comunista repressa nel sangue dalle armate sovietiche e tradita dal colpevole silenzio di un Occidente che promise invano di intervenire. Le immagini dei carri armati di allora vengono accostate a quelle del cingolato di epoca sovietica predisposto per le celebrazioni dell’anniversario e ‘sequestrato’ dai manifestanti.
Ma in questa storia fatta di immagini a colori manca l’audio. Per sentirlo serve un passo indietro. Settembre 2006, la coalizione liberalsocialista guidata dal premier Ferenc Gyurcsàny è reduce da una risicata vittoria alle politiche di aprile, quando qualcuno fa avere ai giornali la registrazione di una riunione privata del gruppo socialista, in cui il premier ammette a chiare lettere di aver mentito sulla reale situazione economica del paese pur di vincere le elezioni. Attestato sopra il 10 per cento, il deficit dell’Ungheria è il più consistente dell’Unione Europea. I conti sono disastrosi e non c’è nessun governo precedente a cui dare la colpa. La coalizione liberalsocialista detiene il primato, quanto mai inutile in questo momento, di essere l’unica in Europa ininterrottamente rieletta al governo dal 1990. Gyurcsàny mente ma si prepara a intervenire col bisturi nella piaga dei conti pubblici prima che incancrenisca. Così poco dopo le elezioni annuncia una serie di provvedimenti tesi a far rientrare il deficit al 3 per cento entro il 2009, in ossequio ai parametri di quell’Ue in cui Budapest è entrata nel 2004. Aumentano le tasse, cresce considerevolmente il prezzo del gas (i cordoni della preziosa borsa energetica sono nelle mani della Russia di quel Putin che con Gyurcsàny è in ottimi rapporti), aumentano le tariffe dei medici e le spese per gli studenti universitari. Il nastro incriminato, insomma, è solo la ciliegina sulla torta amarissima che il popolo si vede costretto a inghiottire.
Cominciano così, intorno alla metà di settembre, una serie di manifestazioni di piazza per chiedere le dimissioni del premier. Membro della gioventù comunista negli anni Ottanta, il leader socialista ha costruito la sua fortuna milionaria in seguito alle prime privatizzazioni dopo la caduta del regime ed è entrato in politica nel 2002 sposando una politica liberista. Uomo forte e ambizioso, Gyurcsàny ha nemici tra gli stessi socialisti, ma le contestazioni fino ad ora hanno compattato dietro di lui la maggioranza. Già nei primi cortei di settembre, il partito di opposizione Fidesz, guidato da Viktor Orban (uno dei più noti oppositori del regime negli ultimi anni del comunismo) accusava Gyurcsàny di essere responsabile dell’infiltrazione di personaggi violenti nei cortei. Dal canto suo il premier imputava all’opposizione (ma va detto che il movimento di protesta non è tutto riducibile ai militanti di Fidesz) l’inasprimento del clima politico e lo sfruttamento della violenza. Lo stesso schema di accuse si è ripetuto in occasione degli scontri del 24 ottobre scorso, conclusisi con centinaia di arresti, almeno 160 feriti e una crisi politica che appare sempre più blindata.
Il 1956 è lì, una pietra importantissima nella storia dell’Ungheria e nel crollo del blocco comunista. Così lontano per chi oggi liquida le proteste come opera di «neofascisti»; così vicino per chi constata, non senza amarezza, che a festeggiare l’anniversario della rivoluzione repressa nel sangue dai comunisti ci sono gli eredi dei comunisti. E che le bugie, di qualunque colore esse siano, hanno sempre le gambe corte e il manganello facile.

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