
Sugli Stati generali Paolo Natale scrive: «In una situazione come quella attuale, dove i rapporti di forza a livello nazionale e sub-nazionale sono ben noti, è ovvio che il voto maggioritario non potrà che seguire la scelta del proprio partito di riferimento, indipendentemente dal candidato presente in quel collegio che, come si è detto, sarà in gran parte sconosciuto dalla maggior parte dei cittadini del collegio. Sappiamo già dunque, “prima” del voto, quale sarà indicativamente il risultato dei collegi maggioritari, senza che gli elettori abbiano voce in capitolo per giudicare in maniera alternativa le possibili “doti” del candidato e scegliere diversamente dal voto proporzionale, anche perché NON possono farlo, essendoci una scheda unica, a meno di tradire definitivamente il proprio partito, favorendo un partito avverso».
Come sempre le riflessioni di Natale sono puntuali e interessanti, però il problema posto, quello del rapporto tra rappresentanti e rappresentati, è affrontato ancora in modo sostanzialmente tecnico, mentre siamo di fronte a una questione che richiede una riflessione storico-culturale. Finiti i partiti ideologici, ci si deve porre la domanda su quali formazioni politico-sociali si dovrà puntare per ridare una base solida alla nostra democrazia. Il commissariamento dall’alto della politica nazionale ha prodotto, innanzi tutto a sinistra, un mix di compagnie di ventura, particolarmente influenzate da fuori Italia, e un conglomerato di cacicchi orientati da appetiti patrimoniali. Come ridare vitalità dunque a una cultura politica che superi questi gravissimi limiti? Mi pare che il punto sia riconoscere come in tutto l’Occidente stiano delineandosi uno schieramento conservatore e uno radical-socialista, entrambi fecondati dalle culture cristiane e liberali che però non producono più solide formazioni politicamente autonome (il fallimento di Angela Merkel e l’indebolimento strutturale di Emmanuel Macron lo dimostrano). Forse con un meccanismo di primarie (magari legate al finanziamento pubblico) e collegi uninominali si potrebbe intercettare il senso della storia che si sta svolgendo, aiutando anche un esito insieme federalista (potenziando il territorio) e presidenzialista (con una verticalizzazione assai richiesta dai processi sempre più necessari di velocizzazione delle decisioni) bilanciata da una solida cessione di potere al territorio.
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Su Open si registra questa frase di Carlo Calenda: «Per noi questa legislatura è uno spartiacque», ha detto. «Ha avuto 2 punti di crisi: la prima l’elezione del Presidente Mattarella, che non voleva essere rieletto, e l’altra è l’ignominia della caduta di Draghi».
Quando sentivi parlare Ugo La Malfa avvertivi dietro le sue prese di posizione “il pensiero e l’azione” di Giuseppe Mazzini, quando ascolti Calenda ti viene subito da pensare a qualche azione della Fiat tra quelle elargite dall’Avvocato, per i suoi plurimi servigi, a Luca Cordero di Montezemolo, il maestro del nostro neo-azionista.
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Sul sito di Tgcom 24 Mediaset si scrive: «La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha definito il Pnrr “uno strumento prezioso che va aggiornato”. Le ha risposto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ospite di “Controcorrente”, su Rete Quattro. “In Europa diranno che è la solita Italia che invece di rispettare le scadenze vuole rinegoziare – ha affermato il leader di Impegno civico –, e noi questo non ce lo possiamo permettere”».
Paolo Gentiloni ha scarso peso sulla scena europea, è il vice di Valdis Dombrovskis che a sua volta è vice di quella stordita di Ursula von der Leyen; è un classico esponente di quel ceto politico di sinistra che ha scelto la via della subalternità ai sistemi di influenza straniera. Però è persona ammodo e intelligente, e sa che la polemica politica interna non va fatta (apertamente) a spese degli interessi nazionali, e dunque ha detto che diversi Stati dell’Unione hanno chiesto aggiornamenti del Pnrr che possono essere fatti se non mettono in discussione una rapida applicazione di provvedimenti ai quali è affidato un rilancio dell’economia continentale. Al contrario di Gentiloni, Luigi Di Maio non è né ammodo né politicamente intelligente (pur se non manca di una singolare furbizia nel cercarsi qualche spazio personale), e dunque non evita una inopportuna polemica elettorale sul Pnrr, superando peraltro anche i vertici del ridicolo quando il nostro Talleyrand alle vongole rivendica i valori della coerenza contro gli usi dei “soliti italiani”.
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Su Dagospia si riprende un articolo di Fabio Martini per La Stampa: «Racconta Corrado Bernardo, l’ultimo assessore democristiano nella storia di Roma: “Ricordo in Consiglio comunale degli anni Ottanta: noi Dc eravamo gli avversari, ma tanto di cappello ai comunisti e alla loro serietà”».
Ma dopo il mitico Luigi Petroselli sono arrivati i Veltroni, i Rutelli fino al plantigrado Roberto Gualtieri, un sindaco che pare stia riuscendo nella quasi impossibile impresa di far rimpiangere Virginia Raggi.
Foto Ansa
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