Declino italiano

Di Giorgio Vittadini
13 Novembre 2003
La quota delle esportazioni italiane sul totale di quelle europee è passata dal 15,2% del 1996 al 13,1% del 2002.

La quota delle esportazioni italiane sul totale di quelle europee è passata dal 15,2% del 1996 al 13,1% del 2002. La spesa italiana in ricerca e sviluppo nel 1995 è stata dell’1,2% del Pil contro il 2,2% nel Regno Unito, 2,3% in Germania e 2,6% degli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione nel 2002 era dell’8,2% contro una media Ue del 10,6%, ma la percentuale dei disoccupati di lunga durata era pari al 65,6% del totale contro una media Ue del 43%. Questi sono solo alcuni dati che mostrano l’inizio di un possibile declino dell’Italia. È un fatto nuovo nel dopoguerra: fino ad oggi l’Italia ha avuto grandi problemi interni ma mai era arretrata in questo modo sotto il profilo economico-produttivo sul piano internazionale. Se il dato continuasse si assisterebbe a un declino inevitabile con conseguenze rovinose anche sul piano del reddito pro capite, sul piano dello sviluppo, della ricchezza, dell’occupazione. Ma non basta. Occorre preservare anche l’altro dato che caratterizza la società italiana: il tentativo di conciliare sviluppo e tutele sociali. Lo sviluppo italiano, a differenza di quello di altri paesi come gli Stati Uniti, è sempre stato segnato dal tentativo di diminuire il più possibile situazioni di povertà assoluta. La tutela del lavoro, dell’occupazione, dell’assistenza sanitaria, delle pensioni è sempre stata presente per tutte le parti sociali. Oggi, però, per assicurare tali tutele senza arretrare ulteriormente, occorre non sprecare nulla ed essere tutti uniti. Invece c’è una pericolosa tendenza a difendere non lo sviluppo, non le tutele sociali, ma spesso solo le proprie organizzazioni in modo corporativo. Alcuni esempi lo mostrano. Secondo fonti ufficiose, ma molto informate, il problema delle pensioni non starebbe solo in complicati calcoli riguardanti la compatibilità tra risorse versate dai lavoratori e somme erogate dallo stato agli stessi. Ci sarebbe qualcosa di nascosto: le miriadi di contributi, privilegi, accordi particolari che segnano il rapporto tra Stato e organizzazioni sindacali e imprenditoriali. La legge Biagi prevede 750 milioni di euro per gli enti bilaterali (associazioni industriali, sindacati) per una formazione professionale che aiuti ad inserirsi nel mondo del lavoro. Anche i sassi sanno ormai che formazione professionale fuori da un curriculum scolastico significa spreco di risorse, inefficacia, inefficienza. Molte delle associazioni che erogano servizi ai lavoratori (Caaf, patronati, ecc.) mantengono sostanzialmente i loro funzionari. Si potrebbe continuare, ma si scelga: o sviluppo e tutele sociali o difesa del proprio gruppo. Basta leggere I Promessi Sposi per capire che l’esito della seconda opzione fu e sarà qualcosa di simile a carestia e peste.

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