
«Dall’Inghilterra mi aspetto poco, ma con l’Italia non sarà una sfida tra chi sta peggio»
Domani sera alle 20.45 scatta la sfida: Italia e Inghilterra non potranno più scherzare, in questo “dentro o fuori” dal fascino calcistico tutto suo. Dei precedenti tra le due Nazionali abbiamo già parlato nei giorni scorsi: lo scontro tra Italia e Inghilterra è sempre stata la sfida tra due modi diversi di intendere e vivere il calcio, e sebbene fatichino a reggere sul campo queste differenze, è interessante comprendere come a Londra e dintorni stiano preparando questa partita. Il gioco tattico e macchinoso impostato da Capello e portato avanti da Hodgson s’allontana sempre di più dalla mentalità spavalda e fisica che ha sempre contraddistinto la Nazionale dei Tre Leoni: vale la pena però analizzare attentamente quali potranno essere le insidie del match di domani, e ancor di più capire l’importanza di questo match per la Nazionale inglese. Per farlo, tempi.it ha intervistato Roberto Gotta, giornalista esperto del calcio d’Oltremanica: oltre ad aver scritto un grande libro sulla Londra calcistica, Le reti di Wembley, è penna della rubrica “Mister Football” del Guerin Sportivo, nonché collaboratore con altre testate.
Gotta, Italia e Inghilterra si affrontano in un quarto di finale che pare risicato per entrambe. Sembra la sfida a chi sta peggio…
Non sono convintissimo che sia una sfida tra chi sta peggio. Passare il turno è rigenerante per tutti, e l’Italia non è stata tra le peggiori nella prima fase. L’Inghilterra ha convinto poco ma ha avuto una buonissima mezz’ora contro la Svezia, dimostrando di poter segnare con discreta facilità quando fa salire il ritmo, anche se la difesa svedese ha avuto parecchie colpe.
Che impressione le ha fatto l’Inghilterra fin qui?
Dall’Inghilterra mi aspetto poco, ormai da fine anni Settanta: ho potuto vivere la triste epoca della mancata qualificazione ai Mondiali del 1974 e del 1978, e la riscossa del 1982 con un’ottima squadra che ebbe solo la colpa di non segnare nella seconda fase (all’epoca era a gironi pure quella). La maggiore speranza era per i Mondiali 2006 e gli Europei del 2004, a mio avviso, ma andò male ogni volta ai rigori. Poi i Mondiali 2010 con Fabio Capello allenatore, ma ci fu troppa pressione e solo in parte fu posta dai media: in realtà lo stesso Capello ha poi ammesso di avere forse esagerato nel cercare un luogo di ritiro eccessivamente distante da ogni distrazione. Questa volta mi aspettavo poco, per il cambio di panchina, e anche perché cominciavano a pesare le troppe delusioni precedenti. È abbastanza sconfortante leggere sempre le stesse banalità, ad esempio che l’Italia farebbe meglio ogni volta che le aspettative sono basse, ma stavolta erano gli inglesi ad averne meno. Prima di ogni manifestazione internazionale Londra e le città inglesi brulicavano di bandiere inglesi, ma stavolta quelle che erano esposte erano lì per il Giubileo della Regina e per le Olimpiadi – in questo caso sono più Union Jack che croci di San Giorgio – e molto meno per la nazionale.
Il cambio tardivo sulla panchina inglese pensavamo avrebbe penalizzato la squadra, che invece, al contrario, ha trovato nell’esperienza di Hodgson un’ottima risorsa. L’ex-nerazzurro ha avuto poco tempo per conoscere e organizzare l’organico, eppure i risultati sembrano dargli ragione. È d’accordo? Che sia, forse, la volta buona che Hodgson arrivi ad una piena consacrazione?
Hodgson ha fatto le cose con buon senso, modificando solo in parte il 4-2-3-1 di Capello. Il suo 4-4-1-1 (o 4-4-2) può sembrare rigido ma è sempre riscattato dalla presenza di un giocatore, che sia Ashley Young o persino Wayne Rooney (ma anche Danny Welbeck), che muovendosi con continuità tra il centrocampo e la punta designata può spezzare la presunta rigidità della formazione. Poi quando entrano Alex Oxlade-Chamberlain o Theo Walcott cambia di parecchio anche la velocità della squadra e quella formazione può persino diventare divertente.
Quanto pesa, tra i favori inglesi con cui ora si guarda a Hodgson, il fatto che Roy abbia sostituito un allenatore come Fabio Capello, mai del tutto amato Oltremanica?
Pesa abbastanza, ma non dimentichiamo che all’indomani della sua nomina Hodgson fu pesantemente preso in giro da almeno un tabloid per la sua pronuncia molto affettata, e che sono in molti che pur apprezzandolo lo ritengono un allenatore da squadre di media caratura. Vero anche che una battuta fulminante sentita poche settimane fa fu proprio relativa al fatto che l’Inghilterra, in fondo, corrispondesse all’identikit di squadra mediocre disegnata apposta per uno come Hodgson.
Chi invece ha non ha brillato troppo all’esordio è stato Rooney: lento e abbastanza ingabbiato contro l’Ucraina, spesso costretto a giocare troppo lontano dalla porta. Cosa si aspetta da questo talento?
Mi aspetto molto ma non moltissimo, perché da nessun calciatore inglese mi aspetto moltissimo. Rooney era un po’ arrugginito ma ha segnato, e inoltre anche nel Manchester United, quando era in campo con Chicharito Hernandez e Dimitar Berbatov, partiva da lontano, non credo che questo gli possa far perdere colpi.
Le intuizioni vincenti per questa squadra paiono possano venire dall’attaccante dello United, o da Gerrard. Quanto pesa la mancanza di Lampard sul centrocampo inglese?
Lampard manca, ma il suo declino fisico mi fa pensare che il suo posto non sarebbe stato quello del titolare fisso. Vero che avrebbe avuto maggiori spunti in area, dove è molto bravo a infilarsi, rispetto a Scott Parker, tutt’altro tipo di giocatore. Ma forse a organico completo avrebbero giocato Gareth Barry e Gerrard, chissà.
E a livello psicologico, la querelle tra Terry e Ferdinand e la conseguente assenza del difensore dello United sta avendo, secondo lei, qualche risonanza?
Secondo me no, è stata molto montata e ha ovviamente creato imbarazzi nella fase di convocazione e preparazione, ma adesso mi sembra che non ne parli più nessuno, almeno pubblicamente.
L’Inghilterra è una Nazionale strana: pur essendo l’inventrice del calcio, e pur avendo sempre in campo internazionale i suoi club tra i favoriti nelle coppe, non è mai riuscita a vincere a livello di Nazionale tra Europei e Mondiali (eccetto nel ’66). Questo nonostante si presenti spesso con organici di livello, squadre che sulla carta paiono competitive. È solo una maledizione o ci sono delle ragioni oggettive per spiegare questa incapacità?
Spesso il problema è stato tattico, ovvero la difficoltà inglese ad affrontare squadre con un tipo di gioco molto diverso dal loro. Abituate a dare poca importanza al possesso palla, in passato spesso si intestardivano a cercare il loro gioco scoprendosi troppo e subendo reti in contropiede e inferiorità numerica, causati anche dalla tendenza ad avere difensori più solidi che tecnici: non per nulla la comparsa di Bobby Moore, a fine anni Cinquanta, rappresentò una mezza rivoluzione, e forse non è casuale che fosse lui il capitano dell’Inghilterra campione del mondo. E poi può anche essere che per decenni il calcio inglese sia stato sopravvalutato principalmente per l’aura di fascino e mistero che suscitavano il loro campionato e la loro tendenza a non volersi confrontare con il resto del mondo, compresa la non-partecipazione alle prime tre edizioni dei Mondiali. Alla quarta ci fu la celebre sconfitta per 1-0 contro gli USA, e solo tre anni dopo il 3-6 casalingo contro l’Ungheria, che fu seguito sei mesi dopo da una sconfitta ancora peggiore, 7-1, a Budapest. All’epoca si dava pochissima importanza alla tattica, nonostante le lezioni di personaggi come Herbert Chapman, e il ct di quelle due sconfitte, Walter Winterbottom, non poteva del resto neppure scegliere la formazione, che gli veniva dettata da un comitato di barbogi. Oggi ovviamente il discorso è radicalmente diverso, ma la differente efficacia dei calciatori inglesi in campo internazionale rispetto a quello dei club nasce anche dalla distanza tra i due tipi di calcio.
A guardare le partite dell’Inghilterra, non si vedono più le fiumane di tifosi biancorossi cui eravamo abituati negli ultimi eventi. È così? Se sì, a cosa è dovuto?
Questa volta il motivo principale è la combinazione degli alti costi per la trasferta, della disillusione per le prospettive della squadra e soprattutto della preoccupazione per la propria incolumità. Nei mesi scorsi numerosi articoli e servizi tv hanno evidenziato il pericolo rappresentato dagli hooligans polacchi e sopratutto ucraini, che nella loro distorta visione del mondo non vedevano l’ora, così pareva, di misurarsi con il loro colleghi inglesi sul piano della violenza; non avevano precisa idea, persino ai tempi di Internet e dei social network, che gli elementi a rischio sono sempre meno numerosi, tra gli inglesi in trasferta, anche al netto del mutamento di atteggiamenti che si verifica in chi non ha problemi a darsi all’alcool appena possibile. Considerando Sudafrica 2010, ci sono meno tifosi nonostante la minore distanza, ma non dimentichiamo che in Sudafrica si parla inglese e la logistica, per quanto possa sembrare strano, era meno misteriosa.
Un’ultima domanda sull’Irlanda. Scarsa in campo, ha stupito tutti per il suo tifo, costante e sempre orgogliosamente legato alla propria bandiera: anche quando perdeva magari di quattro gol, il coro “The fields of Athenry” echeggiava potente. Come si spiega questo grande attaccamento alla propria squadra tipico dei paesi anglofoni, che stupisce sempre tanto noi italiani?
La storia italiana è fatta di costanti frazionamenti locali e regionali a scapito dell’identità nazionale, del resto valida solo da 151 anni. Si ha a cuore la propria squadra molto più di quanto non avvenga con la nazionale, che fatica a riempire anche gli stadi di medie dimensioni per le partite di qualificazione nonostante le decine di bus con i bimbi delle scuole calcio con biglietti omaggio o con forte sconto, anche perché da noi i media martellano sul calcio di club e si ricordano degli Azzurri sono quando l’avvenimento conta. Quante volte una partita dell’Italia è stata attesa per giorni, durante l’anno, e non invece considerata una noiosa interruzione del normale calendario della serie A? In più da noi è (purtroppo) fortissima la mentalità ultras, che concentra tutte le sue attenzioni sui club e molto meno sulla nazionale, i cui tifosi in trasferta vengono visti – temo – più come allegroni dal cappello da jolly in testa che tifosi veri.
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